Al vuoto educativo la migliore risposta è educare alla fede
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
«È dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo. Bisogna infatti conoscere, comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole, spesso drammatiche». Era il 7 dicembre 1965, giusto sessant’anni fa, quando la Costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II consegnava ai cristiani cattolici il compito che li attendeva per gli anni a venire.
Si parlava di indole, attese e aspirazioni “spesso drammatiche” e l’aggettivo oggi ci porta a pensare alla fascia che paga il prezzo più alto del disagio della società occidentale, ossia le nuove generazioni. Ormai non passa giorno nel quale la cronaca non ci racconti il loro disagio, la sofferenza e anche la loro violenza, e quello che non racconta la cronaca lo racconta il silenzio, la preoccupazione e spesso l’angoscia di tante famiglie che sperimentano al loro interno le ferite causate dai loro figli.
Appare evidente la superficialità con cui, recentemente, si è gestito il processo educativo verso i ragazzi. A fronte di certo tradizionalismo nostalgico e moralistico che mitizzava il passato, creando i luoghi comuni dei figli tutti buoni e ubbidienti, di una società che funzionava alla perfezione, a cominciare dalla famiglia, dalla scuola e dall’educazione, faceva eco una visione ingenua del mondo dove il nuovo era buono solo perché nuovo, motivo per cui bisognava sposare tutto quello che proponeva la modernità. Restare indietro, o solo fermarsi a riflettere, era giudicato out, un essere fuori dalla storia.
Una storia, la nostra, segnata da due caratteristiche. Prima di tutto la rapidità con cui la scienza e la tecnica impongono i loro cambiamenti a livello planetario, ispirati da un mercato capitalistico che, manovrato dalla finanza, impone cosa acquistare, cosa fare e come pensare (o non pensare). Una grande menzogna che ha fatto credere che tutto quello che serviva per essere felici lo si potesse comprare.
Da qui la seconda conseguenza, ossia il venire meno di un progetto educativo capace di incidere negli spazi dell’animo. Tutto ormai si è ridotto a competenze (conoscere le lingue, saper girare il mondo, usare la moderna tecnologia digitale…) lasciando da parte i contenuti educativi sui quali andare a formare la coscienza delle nuove generazioni. Tutto è diventato metodo, tecnica, omettendo la sostanza. Per dirla con un’immagine non molto poetica, stiamo dotando i giovani di un’ottima carrozzeria, ma li stiamo lasciando senza motore.
Tra le ricchissime provocazioni che ci vengono dalla Parola di Dio, in questi tempi di preludio alla Pasqua, il tema della croce, purtroppo tante volte banalizzato da cattive interpretazioni, è qui a ricordarci che diventare umani è fatica. La croce ne rappresenta il prezzo, ma l’alternativa è restare o diventare disumani. Una categoria di persone di cui faremmo volentieri a meno, senza contare la sofferenza che una persona si porta dentro quando manca la bussola capace di indicare la strada da percorrere.
E se fosse aiutarli a ritrovare la fede il vero miracolo per dare un motore alle nuove generazioni? Indubbiamente una risurrezione a partire già da questa vita.