Gustate e vedere com’è buono il Signore
Vangelo di domenica 30 marzo
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo (…) egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane (…) partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia (…). Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi (…) e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (…).
Commento
A cura di Rosalba Manes consacrata ordo virginum e biblista
Tu sei sempre con me
Al capitolo 15 del Vangelo di Luca troviamo una delle pagine evangeliche più belle: la parabola di un padre tenero e dei suoi due figli ribelli. Si tratta di un testo che tocca i cuori perché riguarda la vita di ognuno e il difficile apprendistato delle relazioni. È interessante comprendere l’occasione da cui scaturisce questo racconto didattico: i peccatori si avvicinano a Gesù intenti ad ascoltarlo, i farisei mormorano contro di lui. Accade cioè che quanti sono giudicati mancanti dalla legge, esercitandosi nell’arte dell’ascolto della parola di Gesù, mostrano di essere i veri osservanti e quanti si considerano i custodi integerrimi dell’alleanza commettono il peccato commesso da Israele nel deserto, la mormorazione, e denigrano Gesù a motivo della sua prossimità con i peccatori. È proprio questo sdegno farisaico che provoca il racconto di Gesù. La parabola, che non è mai un racconto innocuo, punta a proclamare una verità scomoda e a far sì che chi ascolta possa non solo conoscere o riconoscere la verità ma anche accoglierla. Ci sono verità che il linguaggio umano stenta a decifrare e, di conseguenza, a descrivere. E lì che subentra la parabola che spinge gli uditori a trasferirsi in un altrove dove si realizza una sorta di comparazione tra il racconto e la realtà e dove si riceve una provocazione a un cambiamento che viene suggerito nel momento stesso in cui si ritorna alla propria situazione personale.
Dopo aver parlato di una pecora e di una dracma perdute, dinanzi al cui ritrovamento i rispettivi custodi – un pastore e una casalinga – fanno festa, Gesù parla dei figli di un uomo che si smarriscono entrambi, uno all’esterno e uno all’interno della propria casa. Il minore aspira alla sua autonomia e per partire chiede al padre di anticipare il momento della spartizione del patrimonio, come anticipando la morte del genitore. Il maggiore si vanta dei suoi meriti, elenca la lista delle sue osservanze e dinanzi alla generosità del padre si adira e si muta in accusatore del proprio fratello e del proprio padre. Il minore lascia la casa paterna ingannato dall’abbaglio di una libertà senza limiti che produce smarrimento e impoverimento e toglie la dignità. Il maggiore resta nella casa paterna, vittima di un asservimento al dovere che lo fa vivere da schiavo. Il minore tocca il fondo e nell’abisso della sua solitudine, tra i morsi della fame, ricorda il calore e l’abbondanza della casa paterna e decide di ritornare per mettersi alle dipendenze del padre, alla stregua di un salariato. Il maggiore, troppo pieno dei suoi meriti, avverte il ritorno del fratello come un affronto e non vuole rincasare.
A tanta ostinazione da parte dei figli, il padre risponde con un rispetto estremo della loro libertà e delle loro scelte, una pazienza superlativa nel saper attendere il loro cambiamento e la loro maturazione, una tenerezza immensa nell’accoglierli, una generosità eccessiva nel condividere tutto ciò che è e che ha. Ciò che egli vuole accendere nel cuore dei figli è l’anelito alla comunione, cuore di ogni relazione e rapporto d’amore: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”. È come se il padre dicesse a suo figlio: “Figlio, tu sei l’eternamente accompagnato dal mio amore, il mio alleato, il mio partner, per questo hai tutto il mio cuore”. Questo padre, figura dell’eccedenza dell’amore divino, esprime la pienezza e la perfezione della paternità e della maternità umane e spirituali.
Gesù spiega così ai farisei – e anche a noi uditori e uditrici della sua Parola – che Dio non è un giudice, un contabile, un aguzzino, ma Amore senza fine che accoglie, abbraccia, ricopre di doni, invita alla comunione, restando sempre in attesa dei movimenti della libertà umana che egli reputa sacra.
Vediamo il dramma di questo giovane che sciupa tutto, cioè vive per un periodo l’ebbrezza dell’emozione e poi non c’è più niente! Nessuno stava con lui, poteva soltanto avere qualcuno accanto a sé finché aveva soldi. Nel peccato non c’è amicizia, ci sono solo complici, ma poi sei solo. Ti trovi da solo nell’assurdo di crederti dio e poi vedi che non lo sei. Ma com’è duro convertirsi! Infatti il giovane va a finire coi porci e voleva le carrube, lo stesso pasto dei porci, ma neanche questo gli veniva dato.
Il figlio si è ricordato prima di tutto che stava bene in casa sua. È il primo passo, ma non è quello che salva. Infatti il giovane ritorna per disperazione, ma non ritorna salvato. Chi lo salva è suo padre! La disperazione l’ha fatto alzare, ma chi lo ha salvato è l’amore del padre e quell’abbraccio. Se voi notate egli grida: «Ho peccato contro il cielo e contro di te». Il padre non sente, vede che il figlio è ritornato! Lui sa bene che chi può salvare suo figlio è solo l’esperienza dell’amore, di un amore disinteressato, pulito, totale. È quell’amore lì che lo può rinfrancare, fare risorgere.
È il ritorno all’amore del padre che gli ridà la luce che gli fa capire tutto. Quando noi entriamo in questa paternità di Dio, la nostra esistenza diventa qualcosa di stupendo!
Don Oreste Benzi (Tratto da “Pane Quotidiano, Sempre Editore”)
L’opera d’arte
Salvator Rosa, La preghiera del figliol prodigo (1651-55), San Pietroburgo, Hermitage. Il tema e la composizione dell’opera derivano da una famosa incisione di Dürer, ripresa da Salvator Rosa, pittore e poeta napoletano del periodo barocco. A differenza della classica iconografia in cui è raffigurato il ritorno a casa del figlio e l’abbraccio con il padre, qui è rappresentato l’attimo del pentimento. Il pittore presenta il figliol prodigo come un pastore transumante delle regioni meridionali d’Italia. Il corpo forte e le gambe abbronzate e muscolose sono la prova di lunghi viaggi e di una vita sotto il cielo aperto.
Le capre, le pecore, il cinghiale e il toro, il gregge a lui affidati, sono dipinti con grande attenzione all’anatomia e alle abitudini degli animali, non meno di quella dimostrata dai coevi pittori olandesi. Tuttavia, il dipinto di Rosa non è una scena di genere. Il giovane pastore ci viene mostrato mentre è immerso in un turbato raccoglimento, in preghiera. Dunque, in una cornice di vita quotidiana si inserisce il dramma spirituale di un giovane uomo che rientra in se stesso, prima ancora di rientrare a casa dal padre.
V.P.