La sostenibilità ambientale degli impianti agrivoltaici
“Lo sportello di Notizie”: l’ing. Giovanni Marino, esperto di impianti ad energia rinnovabili, direttore di G-teK srl, risponde alle domande dei lettori su questioni inerenti il vivere quotidiano
Spett. Notizie, in queste ultime settimane nelle cronache cittadine si è parlato molto di impianti “agrivoltaici” da collocare in alcune aree del comune di Carpi. Di cosa si tratta? Sono veramente soluzioni che possono rispondere alla necessità di produrre energia pulita? Lettera firmata
Il recente sviluppo dei sistemi fotovoltaici su campi agricoli, comunemente riferiti come “agrivoltaico”, ha fatto nascere un po’ ovunque reazioni diverse. L’impatto che questi impianti hanno sul territorio è infatti molto elevato e preoccupa l’opinione pubblica. Da un punto di vista tecnico si è arrivati a queste proposte da due strade diverse. Da una parte i generatori fotovoltaici, inizialmente molto costosi e poco competitivi rispetto alle forniture tradizionali di corrente, trovavano speciale applicazione negli ambienti rurali (v. foto 1). In quei contesti riacquistavano competitività risolvendo problemi altrimenti non risolvibili con le tradizionali reti elettriche, se non a costi superiori, utilizzando generatori a gasolio. Si pensi ad esempio alle pompe per l’irrigazione o all’illuminazione in pieno campo. Poi sono arrivati i tetti solari nei primi anni 2000. Questa soluzione favorì lo sviluppo della tecnologia e quindi la riduzione dei costi. Inoltre la contemporanea presa di coscienza del problema del riscaldamento globale, ha reso disponibili ingenti risorse, messe a disposizione dai Governi per contrastare questo fenomeno e produrre energia fotovoltaica, rinnovabile e pulita.
Dopo le prime applicazioni nel settore agricolo (v. foto 2), si arrivò rapidamente ad utilizzare ampie zone in terreni aperti, in cave dismesse ed altre zone considerate di basso pregio per realizzare centrali fotovoltaiche di dimensioni sempre maggiori. Molti terreni, nel sud Italia e non solo, vennero presi di mira da iniziative anche speculative, lasciando sul campo diversi fallimenti. L’equazione: “tanti pannelli solari, grossi investimenti, molti profitti” era molto attraente in un contesto di economia generalmente rallentata. Questo meccanismo si rivelò presto insostenibile e il governo Monti nel 2012 bloccò i generosi contributi riconosciuti negli anni precedenti. Sono di quegli anni progetti sempre più ambiziosi. Il più curioso proposto da ricercatori giapponesi per realizzare un impianto fotovoltaico sulla Luna e rimandare a terra un fascio laser(!), un altro progetto internazionale aveva come obiettivo la copertura di ampie parti del deserto del Sahara con impianti fotovoltaici. Si è arrivati ad oggi ad impianti come quello cinese del Midong (foto 3), l’impianto fotovoltaico più grande del mondo, da 5GW e con una superficie di 2mila ettari in mezzo al deserto.
L’esperienza italiana, fino al 2012, aveva dimostrato diverse criticità nel coprire i terreni agricoli con impianti fotovoltaici, nonostante l’euforia generale degli investitori per questa soluzione. Qualcuno continuò a lavorare per risolvere l’accettabilità degli impianti a terreno che permettevano una grande marginalità economica. Il termine agrivoltaico (o qualcosa di simile) lo sentii la prima volta intorno al 2010 ad un convegno in cui parlò Silvio Rubbia (il fratello del più noto Carlo, premio Nobel per la fisica 1984 ndr). In un’intervista del 2011(*) Rubbia spingeva per queste soluzioni, ad uno stadio ancora iniziale. Egli parlava di terza rivoluzione agricola dopo il passaggio dal nomadismo all’agricoltura e all’allevamento, e dopo la meccanizzazione agricola della rivoluzione industriale. Rubbia vedeva l’opportunità di abbinare la produzione di energia a quella alimentare, in quella che chiamava ‘fattoria solare’ (in foto 3 un esempio del concetto di serra agricola sviluppata per un centro universitario in medio oriente nel 2014). Fattore cruciale era il rapido raggiungimento della grid parity, allora prevista in otto dieci anni per il nord e quattro o cinque per il sud.
La grid-parity è quella condizione per cui il costo finale del kilowattora solare (lo “scatto” del contatore) si abbassa fino al costo di quello prodotto in modo tradizionale. Ora questa condizione in Italia fu raggiunta con un certo anticipo già nel 2013, secondo uno studio dell’Università di Padova. Sempre Rubbia prevedeva la possibilità che le fattorie solari si aggregassero in rete in una comunità in grado di produrre economie di scala a km. zero (Agrinet, forse le attuali CER? ndr).
L’impatto sul territorio
Negli anni più recenti si è proseguito sporadicamente a costruire a terreno, anche grossi impianti, sfruttando alcune legislazioni regionali, finchè il PNRR ha inserito tra i suoi obiettivi quello di sviluppare sia la diffusione del fotovoltaico sulle coperture agricole (v. bando nazionale AGRISOLARE, 2022) che di sostenere l’agrivoltaico (v. primo bando nazionale AGRIVOLTAICO 2023-24 dedicato a sistemi sperimentali). Per quanto riguarda la maturità industriale, la principale fiera italiana del settore ortofrutticolo ha incontrato l’industria solare nel 2024, in occasione del primo Salone dell’Agrivoltaico a Macfrut, Rimini. Siamo quindi ad una fase iniziale di questa tecnologia. L’impatto che un impianto agrivoltaico può avere sul territorio può essere notevole e soprattutto irreversibile. Sono veramente tanti gli spazi esistenti già compromessi che potrebbero essere sfruttati a fini energetici. Per citarne un esempio tra i tanti, in Svizzera si stanno studiando impianti fotovoltaici tra le rotaie dei treni.
Conclusioni
Sono molte le semplificazioni che hanno portato a concepire l’agrivoltaico come soluzione virtuosa, specialmente nelle forme estensive che si stanno profi lando in Italia e non solo. Vedere nell’agrivoltaico un valido metodo per la lotta ai cambiamenti climatici solo perché si tratta di produzione di energia rinnovabile è un grave errore concettuale. Sacrificare preziosi terreni dietro pressioni spesso speculative, è ancora più dannoso e pericoloso. Diverso è cercare forme di sinergia tra produzione energetica e pratica agricola, ma questo richiede uno sviluppo graduale e misurato. La priorità è adottare soluzioni veramente reversibili, per non danneggiare permanentemente l’ambiente. Bisogna procedere con estrema prudenza a protezione del nostro ambiente a salvaguardia della comunità locale.
Il valore della partecipazione
Queste decisioni interpellano l’intera società perché vanno oltre la tecnica ed hanno a che fare con la dimensione politica, economica, etica e anche teologica. Le scelte che verranno operate oggi sul territorio condizioneranno le future generazioni. Oltre all’agrivoltaico, si pensi al ritorno del nucleare, alla gestione delle alluvioni, della mobilità, etc… Grandi decisioni che a volte avvengono rapidamente in un contesto di difficoltà delle istituzioni democratiche, indebolite da un astensionismo crescente. La partecipazione democratica è essa stessa una forma di biodiversità sociale. Occorre informarsi e impegnarsi per non subire decisioni ormai inevitabili, confezionate altrove.
(*) da “Per cambiare una visione del mondo”, Intervista a Silvio Rubbia di Valeria Fieramonte, www.universitadelledonne.it