La luce del Vangelo e il valore supremo della creatura umana
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Ci sono pagine del Vangelo, sentite tante volte e accolte per quel tanto che la mente e il dovere attribuivano loro di valore, che scivolavano sopra la nostra vita senza sedimentare alcunché. Poi, succede improvvisamente che qualcuna di queste pagine si… accende improvvisamente consegnandoci tutta la forza dell’attualità del parlare di Dio. La scorsa domenica, seconda di Quaresima, la liturgia ci proponeva la trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor. Evento conosciutissimo che la Chiesa celebra ogni anno anche il giorno sei di agosto. Una caparra, come la definiva il mio vecchio professore di esegesi biblica, con cui Gesù mostrava ai suoi seguaci che non dovevano avere paura ad affrontare le fatiche e le incognite della missione, con le tante croci che incontravano, perché, dietro l’apparente fallimento, si preparava il premio finale. Tutto vero si dirà. Certamente, ma non solo.
Il racconto evangelico ci dice che Gesù, mentre era in preghiera, cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Una luce, semplicemente una luce. In quell’uomo che poneva tanti interrogativi, quell’uomo che veniva da quel paesino da nulla a nord della Galilea, in quell’uomo dalla voce fasciante e dalle parole essenziali abitava Dio. Ecco da dove veniva la luce. La stessa luce che aveva guidato i saggi d’Oriente ad una capanna, dove un bambino che prendeva il latte dalla madre, che sporcava come i tutti i bambini e aveva bisogno di essere pulito come tutti gli altri, quel bambino era abitato da Dio. Qui sta tutta la rivoluzione cristiana e la sua differenza dalle altre religioni. Dio non ha bisogno del tempio, non vuole essere confinato nei riti, nei manuali di comportamento morale per scovare le ferite umane, nelle dottrine che prendono il cervello ma lasciano fuori il cuore e la vita. Dio non ha bisogno neppure delle nostre paure, quelle che ci fanno stare attenti a non fare il male per quello che potrebbe capitarci dopo. Finiremmo per dare ragione a Sartre quando diceva che «quelle sensazioni del Dio che vede, che spia ciò che faccio per castigarmi mi hanno reso ateo, senza Dio, ma allora ho conosciuto la libertà».
No, Dio ha bisogno della carne delle creature, innanzi tutto per proclamarne la dignità, la loro inviolabilità e per dirci che solo nella relazione e nell’incontro con gli altri sta la sfida della nostra fede e la nostra salvezza. In questo tempo in cui si nuota nella marea dell’indifferenza religiosa e in quella feroce della violenza che ci abita intorno, ogni cristiano e noi cristiani come Chiesa dobbiamo chiederci quale annuncio abbia la precedenza perché il regno di Dio cammini nella storia. La cultura panteistica che respiriamo, dove le cose e gli animali sono spesso percepiti come più importanti delle persone, ci chiede di rimettere al centro la creatura per restituirle il rispetto e quell’anima dalla quale si sprigiona la luce di Dio. Fu, del resto, questa l’intuizione dei primi cristiani, come ci racconta la lettera a Diogneto del secondo secolo: «I cristiani, come tutti gli altri uomini si sposano ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma la loro cittadinanza è in cielo».