Il Signore ha pietà del suo popolo
Vangelo di domenica 22 marzo
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
Commento
A cura di Rosalba Manes, consacrata ordo virginum e biblista
L’attesa dei frutti
Nel Vangelo della III Domenica di Quaresima, Luca ci riferisce due fatti di cronaca nera accaduti al tempo di Gesù. Viene riferito a Gesù che Pilato si è macchiato del sangue di alcuni galilei, facendolo scorrere insieme a quello dei sacrifici da loro offerti. Questa notizia troverebbe conferma in una fonte attendibile della storia ebraica come Giuseppe Flavio, secondo il quale nel 35 d. C. ci sarebbe stata contro i Romani un’insurrezione da parte dei Giudei che, dopo essersi nascosti nel tempio, sarebbero stati uccisi durante il sacrificio rituale. Secondo altri, invece, Pilato avrebbe fatto massacrare nel Tempio un gruppo di galilei (forse vicini al movimento degli zeloti) mentre sacrificavano gli agnelli, forse in occasione della festa di Pasqua. Il sangue delle vittime mescolato a quello dei sacrifici aveva profanato lo spazio sacro destinato al culto.
La tragica notizia che viene riferita a Gesù diviene il pretesto per affrontare il tema della conversione. Un certo modo di pensare aveva avallato troppo a lungo la considerazione secondo cui i buoni ricevono il bene e i cattivi il male. Questa teoria della retribuzione, malgrado vicende note (come, ad esempio, quella di Giobbe) l’avessero messa in crisi e avessero segnato l’inizio del suo declino, trovava di tanto in tanto dei sostenitori. Gesù al contrario denuncia questa visione deformata e deformante della vita: i Galilei fatti uccidere da Pilato non erano necessariamente dei peccatori incalliti meritevoli di un tale castigo. Gesù afferma che la loro morte subìta per mano dei violenti non è il salario del loro peccato (cf. Rm 6,23). Anche la morte che colpì diciotto abitanti di Gerusalemme sui quali cadde rovinosamente la torre di Siloe non è la conseguenza diretta del loro peccato.
Gesù spiega che non esiste un automatismo tra morte e peccato. Non tutte le morti sono conseguenza del peccato, ma il peccato ha necessariamente come conseguenza la morte. Gesù ribalta in tal modo la prospettiva. Non si deve giudicare la morte degli altri come conseguenza necessaria di una colpa, ma si deve vigilare sulla propria condotta, evitando il peccato e convertendosi a una vita di grazia perché il peccato non produca una distruzione inesorabile. Nella vita si può essere vittime involontarie della violenza altrui o di sciagure e catastrofi naturali, ma si può essere anche vittime volontarie del proprio peccato personale e dell’ostinazione nel reiterarlo.
Superando la teoria della retribuzione, Gesù mostra la complessità della vita che è tale da non poter essere controllata dall’uomo e al tempo stesso denuncia la sciagura più grande che tocca la vita umana: l’inconvertibilità dall’abitudine del peccato. Attraverso una parabola assai suggestiva, che parla di vite, fichi e frutti, Gesù ricorda il progetto del Padre: la fioritura di ogni vita. Quando ci si disconnette dalla relazione con Dio e si cede al peccato è come se la terra della propria vita si inasprisse divenendo inospitale e infeconda. Il personaggio della parabola di Gesù si rivolge al vignaiolo dicendo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ci sarebbero buone ragioni per abbattere l’albero sterile, ma c’è una dilazione, un’ulteriore attesa in vista della sperata fecondità. È il tempo della pazienza di Dio, il momento in cui il Padre attende il ritorno del figlio ostinato e ribelle. È l’occasione per noi tutti di astenerci dalle abitudini che provocano la paralisi del cuore e dei rapporti. È la chance per convertirci a una vita nuova nel segno del dono e del perdono che inaugura la bella stagione gravida di frutti e piena di gioia pasquale.
Nel popolo c’era la convinzione che ogni disgrazia fosse un castigo di Dio per il comportamento tenuto dalle persone nei confronti del Signore. Il Signore invece dice che il giudizio di Dio non coincide con le disgrazie che capitano, con le malattie che avvengono. Esse sono dovute allo stato di peccato dell’umanità intera, perché la morte è entrata nel mondo per il peccato, ma le singole disgrazie, le malattie e la morte non sono il castigo del peccato di quella singola persona. A noi non è dato dire chi è buono e chi è cattivo, come volevano fare allora gli Ebrei che ritenevano che il povero fosse povero in quanto colpito dalla maledizione di Dio, che il malato fosse malato perché colpito dalla maledizione di Dio, così essi si potevano sentire buoni perché erano in salute ed erano ricchi. No, il Signore ha portato via completamente questo modo di ragionare errato. Tu non sai se sei buono o no; devi invece essere giusto e fare la volontà di Dio e tutte le volte che hai coscienza che non stai facendo la volontà di Dio, hai coscienza che crei in te stesso la morte, togli la vita, non fai la storia di Dio, non cammini per le vie del Signore. Se noi non ci convertiamo, se non cambiamo modo di ragionare, ci rovineremo perché ogni vita passata fuori di Dio è rovina.
Don Oreste Benzi (Tratto da “Pane Quotidiano, Sempre Editore”)
L’opera d’arte
Benedetto Antelami, Mesi di febbraio e giugno, (1215-20 circa), Parma, Battistero. Nella parabola che leggiamo nel Vangelo di questa domenica, al padrone che gli ordina di tagliare il fico, il vignaiolo risponde: “lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”. Ed è intenta in un lavoro simile, con la vanga, l’allegoria del mese di febbraio scolpita da Benedetto Antelami, il grande scultore e architetto originario della Val d’Intelvi (Como), nell’ambito del ciclo conservato nel battistero di Parma. Il percorso dell’anno, in cui è inserito il giovane febbraio (a sinistra) con il segno zodiacale dei pesci, è scandito dai lavori agricoli, interpretati, attraverso uno stile scultoreo ispirato a modelli classici e caratterizzato da un accentuato realismo, non più come maledizione divina, ma in chiave salvifica. Dal lavoro dei campi – vediamo a destra giugno intento a mietere le spighe con la falce – vengono infatti il grano, la farina e infine il pane, che richiama il corpo di Cristo, il sacramento dell’Eucaristia.
V.P.