È bello rendere grazie al Signore
Vangelo di domenica 2 marzo
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda ».
Commento
A cura di Rosalba Manes consacrata dell’Ordo virginum e biblista
La cura del cuore
Il carattere itinerante della sequela dei discepoli di Gesù potrebbe far pensare che basti ricorrere all’improvvisazione per seguire Gesù. Il Vangelo ci ricorda invece che per essere discepoli c’è bisogno di un serio apprendistato che richiede un totale investimento di sé perché ognuno sia «come il suo maestro». Somigliare al Maestro non vuol dire però seguire alcuni precetti, ripetere le sue parole o imitarne i movimenti e i modi di fare. Somigliare al Maestro significa piuttosto lasciarsi muovere il cuore ad una conversione integrale, perché nella propria domus interior, che è il cuore, si dia spazio alla parola, ai gesti, ai sentimenti, alla volontà del Maestro.
È nel cuore, infatti, che secondo Gesù e la visione biblica si prendono le decisioni, si sceglie chi si vuole essere, chi si vuole diventare; è lì, in quel luogo intimo e nascosto, che sbocciano le emozioni, si coltivano i sentimenti, si affina la postura con cui stare al mondo, si cesella la propria vocazione e si tessono le alleanze fondanti, di amicizia e di amore. Questo autentico motore dell’agire, vera casa dell’essere e dell’accogliere, è però «un abisso» (Sal 63/64,7), un luogo profondo, dove è possibile custodire sia ciò che ossigena e dà vita, sia ciò che intossica e fa morire.
Gesù invita pertanto i suoi discepoli alla cura della propria interiorità, cioè a saper discernere cosa accogliere nel proprio cuore e ad apprendere l’arte dell’educazione dei sentimenti. Questo essere “ben equipaggiati” (come indica il verbo greco katartízo) permette non solo di trovare il proprio personale cammino ma anche di saper indicare la via agli altri (come indica il verbo greco odeghéo). Luca ce lo mostra nel secondo volume della sua opera, in At 8,26-40, quando ci presenta il diacono ed evangelizzatore Filippo come un uomo docile alle indicazioni dello Spirito Santo e capace di indicare la via a uno straniero in ricerca e di accompagnarlo a incontrare nel battesimo il Cristo Salvatore.
Questo essere ben preparati è paragonato da Gesù alla capacità di vedere. Solo chi vede la luce può accompagnare chi è ancora nelle tenebre e solo chi ha avuto occhi capaci di vedere la realtà con nitidezza può accorgersi quando il proprio occhio non è più limpido, detergerlo e aiutare anche gli altri in questa purificazione dello sguardo. Con linguaggio paradossale, Gesù svela quel grande tranello del cuore umano che è l’ipocrisia: guardare la pagliuzza che è nell’occhio del fratello e non accorgersi della trave che è nel proprio occhio significa voler denunciare i limiti altrui e coprire i propri per sminuire gli altri, innalzando e vantando se stessi, pur sapendo di non essere affatto migliori degli altri.
Gesù insegna che «ogni albero si riconosce dal suo frutto» e che ognuno estrae dal proprio cuore ciò che vi ha immagazzinato: «l’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male». Infine però, come dai frutti si riconosce l’albero, così dalle parole di un uomo si conosce il suo cuore. Le parole sono la manifestazione della propria interiorità. Il cuore è paragonato da Gesù a uno scrigno dove si custodisce un tesoro. Se il tesoro che custodiamo in noi è la parola salvifica del Divino Maestro, le nostre parole saranno anch’esse salvifiche: costruiranno ponti con gli altri, tesseranno relazioni edificanti, saranno veicolo per attrarre i cuori all’accoglienza del Regno di Dio.
Il Signore da noi si aspetta frutti. Quali sono i frutti? Neanche a farlo apposta all’interno della Chiesa, del popolo di Dio, ci sono tante vocazioni: lo Spirito Santo matura l’anima secondo particolari aspetti della vita del Cristo, perché l’unica vera grande vocazione di tutti i cristiani è Cristo Gesù, però lo Spirito Santo matura alcuni aspetti. Cristo è la mia vita; ecco cosa vuol dire portare frutti: è Cristo che diventa la nostra vita di santificazione, è lui la nostra speranza, e siccome lui è Dio infinito, la nostra vita va verso l’infinito. Come è vero questo! Il Signore ogni giorno te ne prepara una nuova! Tu stai con lui, lasciati fare!
Don Oreste Benzi (Tratto da “Pane Quotidiano, Sempre Editore”)
L’opera d’arte
Hans Memling, Cristo circondato da angeli musicanti (1489), Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten. “E’ bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo”. Prendiamo spunto dal Salmo di questa domenica. L’opera, dipinta da Hans Memling, uno dei grandi pittori fiamminghi della seconda metà del ‘400, è il pannello centrale del trittico superstite che faceva parte della pala dell’altare maggiore della chiesa di Santa Maria la Real de Nájera in Spagna.
Fra le nuvole, su di uno sfondo dorato, che simboleggia lo spazio divino, ecco la figura del Cristo benedicente: sul bordo della veste si leggono le parole riprese dal greco “Hagios Otheos”, che significano “Santo Dio”. Se le tre gemme sulla grande spilla che trattiene il manto rappresentano le tre persone della Trinità, la corona e il globo con la croce identificano Cristo come re dell’universo. Egli è affiancato da tre angeli per lato, vestiti di broccato dorato: essi cantano inni leggendoli da due grossi codici, mentre ai loro lati – qui non visibili – altri dieci angeli suonano strumenti tipici del XV secolo, dipinti da Memling con dovizia di particolari. Il tutto a creare l’atmosfera di una celestiale armonia a lode dell’Altissimo.
V.P.