Quel velo che nasconde, un caso che fa discutere e non solo nella scuola
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Intanto cominciamo col fare chiarezza sui nomi dei veli indossati dalle donne musulmane, almeno i più comuni. Partiamo dallo Hijab, il più noto. È il foulard che si mette sul capo e annodato sul collo. Meno diffuso ma comunque presente anche da noi è il Niqab, ossia quel mantello nero che copre tutto il corpo, compreso il volto, lasciando soltanto una fessura orizzontale per gli occhi.
Sull’origine del velo delle donne si danno molte versioni. Chi fa riferimento a una ragione molto semplice, ossia la necessità di ripararsi dalle intemperie come sabbia, vento, sole… Chi invece ne fa una questione religiosa, ossia un gesto di umiltà davanti a Dio. San Paolo, attirandosi le critiche di non poche femministe, affermava il dovere delle donne di andare a capo coperto. Difficile dire da cosa dipendesse questa consuetudine. C’è una corrente di studiosi che afferma che un tempo venivano esposte a capo scoperto solo le donne che erano vendute come schiave e come prostitute. Chi comprava doveva vedere molto bene la “mercanzia”, ossia l’oggetto per cui tirava fuori la grana. Da qui la tradizione di tutelare la donna, coprendola con un velo, lasciando intendere che quel segno, da solo, bastava a dichiararne la dignità e la tutela da parte dello sposo o della famiglia. Non sappiamo come nel corso dei secoli queste tradizioni si siano poi intrecciate con tanti altri significati, diversificandosi da un Paese all’altro. Sappiamo però che il Corano parla solo dello Hijab, e questo ci basta per evitare di puntare il dito contro l’Islam come se si trattasse di un fatto religioso.
Nei giorni scorsi, a Monfalcone, in provincia di Gorizia, è uscito il caso di alcune studentesse bengalesi le quali ogni giorno vanno a scuola con il Niqab. La dirigente ha spiegato che, per evitare possibili rischi, un’insegnante procede al riconoscimento delle ragazze, ogni mattina prima di lasciarle entrare in classe. Premesso che si tratta di un fenomeno di costume e non religioso, sul caso si sono scatenati in tanti con i pareri più disparati. La Lega ha chiesto l’immediata introduzione di una legge che vieti in pubblico di indossare il Niqab. In realtà, la legge già esiste ed è la 152 del 1975. L’Art. 5 recita testualmente: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico. Il contravventore è punito con l’arresto da uno a due anni e con l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro”.
A questo punto i ragionamenti sono almeno due. Il primo riguarda il rispetto della legge da parte di tutti coloro che vivono sul territorio italiano, per evitare situazioni pericolose. Ne abbiamo un esempio con i Black Bloc e quelli dei Centri Sociali che scendono in piazza mascherati per fare quello che fanno. La sicurezza è un bene sociale e una delle sue condizioni fondamentali è la riconoscibilità dei cittadini.
Ma c’è una ragione più profonda per dire di no al Niqab, ed è l’integrazione di queste ragazze con i loro compagni e con l’ambiente in cui vivono. Chiudere la saracinesca della comunicazione fisica è dire no alla loro emancipazione e, in definitiva, alla loro libertà di donne e di cittadine.