Il Grande codice da maneggiare con cura
A proposito di Bibbia a scuola
di Brunetto Salvarani
“Non c’è un aspetto della nostra cultura, compreso il marxismo, che non sia stato influenzato dalla cultura espressa dalla Bibbia… Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dèi di Omero e pochissimo di Mosè? Perché debbono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici (anche perché senza Salomone non si capisce Dante)?”. Comparse sul settimanale L’Espresso nel lontano settembre 1989, queste domande retoriche erano a firma di un notissimo intellettuale di formazione cattolica ma di matrice laica, Umberto Eco (che la Bibbia, il libro più presente nelle nostre case ma in genere anche il meno letto, la conosceva davvero). Considerazioni, diciamolo da subito, tanto sensate quanto del tutto inascoltate, nello scorrere delle stagioni e dei ministri della pubblica istruzione.
Eppure, appare evidente che, in assenza di una consapevolezza almeno minima della Bibbia, ci si preclude la comprensione di numerosi elementi diffusi nella vita quotidiana di molti paesi di antica cristianità, compreso il nostro: come interpretare edifici, sculture e immagini che popolano città grandi e piccole e campagne, cogliere il senso di espressioni, modi di dire e proverbi del linguaggio popolare e colto, muoversi con costrutto tra calendari, celebrazioni e feste, se si è privi dell’alfabeto che li ha generati e nutriti? E come auspicare l’integrazione di quanti arrivano qui provenendo da vari mondi religiosi, se chi dovrebbe accoglierli non è in grado di spiegare loro testi e meccanismi che nella storia ne hanno originato usi e costumi? Mi rendo conto che sono domande tutt’altro che marginali – e tutt’altro che neutre – nell’attuale quadro sociopolitico nazionale: quali episodi, volti, immagini della Bibbia hanno plasmato l’orizzonte simbolico e culturale di generazioni di uomini e donne nati e cresciuti in una società che, fino a qualche decennio fa, crocianamente non poteva non dirsi cristiana? Sì, l’analfabetismo biblico è una piaga italiana quanto mai diffusa, che, per quanto riguarda il mondo cattolico, ha radici lontane, che affondano nel Cinquecento, con la scelta dei padri del concilio di Trento di prendere radicalmente le distanze da Martin Lutero e dal suo Sola Scriptura. Un altro concilio, il Vaticano II, con la costituzione Dei Verbum (1965) ha meritoriamente rilanciato, come sappiamo, il tema della necessità della lettura della Bibbia, per il singolo credente e per la vita della Chiesa: avviando un processo ancora in corso, che avrebbe bisogno di investimenti massicci in chiave pastorale, nelle parrocchie e nelle comunità.
In questo panorama, qualche settimana fa, in un’intervista al Giornale, il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha parlato delle nuove Indicazioni nazionali per il primo ciclo, cioè i programmi che dovrebbero entrare in vigore dal 2026-2027, illustrandone alcune linee generali e invitando a un grande dibattito su quelle proposte. Subito dopo, la sottosegretaria Paola Frassinetti ha ripreso la questione, annunciando che, nelle future Indicazioni, si prevede che nelle scuole primarie le Sacre Scritture avranno cittadinanza in quanto “testo della nostra tradizione, che tra l’altro ha ispirato numerose opere di letteratura, musica, pittura e influenzato il patrimonio culturale di molte civiltà”. Il Grande codice della cultura occidentale, ci siamo abituati ad ammettere sulla scorta di un volume importante del critico canadese Northrop Frye. Niente di più vero. Perciò, ritengo che l’ipotesi che la Bibbia diventi materia di studio vada esaminata con attenzione; ma corredandola con un invito a dotarsi delle dovute precauzioni, alcune delle quali provo qui a elencare.
In primo luogo, sulla Bibbia andrebbe sempre scritta un’avvertenza: maneggiare con cura. Storicamente, purtroppo, è stato in nome di essa e brandendola come una clava che si sono effettuati i peggiori massacri e compiute le peggiori nefandezze: guerre (cosiddette) giuste, guerre (cosiddette) sante, guerre (cosiddette) di religione e violenze di ogni genere, e mi fermo qui. Ecco perché è fondamentale che si offra agli studenti, calibrandola sulla loro età e sulle loro competenze, una lettura di carattere storico-critico, contestualizzando i vari libri, scritti, non dimentichiamolo, nell’arco di diversi secoli, in lingue lontane dall’italiano e in un quadro culturale distantissimo dal nostro. Decontestualizzare le Scritture può rivelarsi alquanto pericoloso, e rischia di far dire alle pagine bibliche addirittura il contrario di quello che intendevano narrare i loro autori. Gli esempi citabili al riguardo potrebbero essere numerosi, ivi compresi gli usi strumentali cui stiamo assistendo nei conflitti internazionali oggi in corso, quali quello israelopalestinese e quello fra Russia e Ucraina.
Seconda osservazione. Occorrerà evitare che la Bibbia sia presentata nelle aule scolastiche in chiave confessionale o, ancor peggio, catechetica: altri sono i luoghi in cui si deve affrontarla in questo modo, le parrocchie e le chiese. Nella scuola, seguendo una suggestione del cardinal Martini, in una società di laicità matura andrebbe piuttosto evidenziato il suo carattere di libro che educa: come libro letterario ma anche come testo sapienziale, “che esprime la verità della condizione umana, di qualunque continente e cultura, può sentirsi specchiata almeno in qualche parte di esso”. La Bibbia, in tale direzione, lo è “perché descrive le vicende di un popolo nell’ambito di altri popoli attraverso un cammino progressivo di liberazione, di presa di coscienza, di crescita di responsabilità del soggetto individuale, fornendo un paradigma storico valido per l’intera storia dell’umanità”. “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35), per fare solo un esempio, è un messaggio prezioso ed eterno, che ci interpella nel profondo, e non andrebbe mai sottovalutato o dimenticato.
(1 – Continua)