Intervista a Filippo Boni
Culturalmente, rubrica a cura di Francesco Natale
Filippo Boni è l’autore di “Mi chiamo Oleg. Sono sopravvissuto ad Auschwitz. La storia vera dell’ultimo bambino salvato dai lager nazisti” (Newton Compton Editori, 2025). A 80 anni dalla liberazione di Auschwitz, Filippo Boni, già vincitore del Fiorino d’Oro e del Pegaso d’argento della Regione Toscana, racconta in questo volume sconvolgente la storia di Oleg Mandić. Sopravvissuto alle atrocità del lager e agli orrori del dottor Mengele, a 11 anni, Oleg è uscito da Auschwitz e da allora ci è tornato molte volte.
Cosa l’ha spinta a raccontare la storia di Oleg Mandić? Come è venuto a conoscenza della sua storia?
Ho conosciuto Oleg sul lungomare di Caorle, in Veneto, otto anni fa. Guardava l’orizzonte con il suo cappello di paglia. “Ho una storia piena di dolore da raccontare, non sarà facile parlare con me” mi disse. Divenimmo amici. Il suo è un messaggio rivoluzionario, pieno di speranza: torna nel campo di sterminio di Auschwitz ogni volta che nella sua vita c’è qualcosa che non va. Tornare nel lager gli ritrasmette vigore e attaccamento alla vita. È una lezione per tutti.
Durante il lavoro di ricerca e nella stesura del libro, ha avuto modo di approfondire il rapporto di Oleg con i suoi ricordi. Come ha fatto Oleg a trasformare il dolore del passato in una testimonianza per il futuro?
Il momento che ha dato una svolta alla trasformazione di Oleg credo sia la morte della madre, in un incidente stradale, molti anni dopo la liberazione. L’enorme dolore per la perdita improvvisa della mamma con la quale aveva un rapporto speciale ha indotto Oleg a tornare ad Auschwitz ed a intraprendere un viaggio nella trasformazione della sofferenza in strumento di consapevolezza per affrontare il futuro da conferire alle nuove generazioni. Così la sua esperienza è divenuta memoria del sacrificio da diffondere.
Lei ha già scritto opere che trattano temi legati alla memoria storica, come “ Gli eroi di via Fani” e “ L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia”. Quali similitudini e quali differenze ha trovato nel raccontare la vicenda di Oleg rispetto ai suoi lavori precedenti?
Oleg, come gli altri testimoni della storia del ‘900 di cui mi sono occupato, rappresenta un unicum. È l’ultimo ad aver lasciato Auschwitz, ma lui prigioniero politico ed ex cittadino Italiano d’Istria, con la sua esperienza di vita, ci narra in verità una storia straordinaria che riguarda un pezzo di storia italiana mai davvero abbastanza approfondita: quella dell’Italia orientale durante il corso del ‘900 dal fascismo alle foibe all’annessione Jugoslava. Scoprire la sua storia significa capire cosa hanno provato migliaia di italiani che un giorno si sono ritrovati cittadini jugoslavi.
In che modo pensa che la storia di Oleg possa ispirare le giovani generazioni oggi, a ottant’anni dalla liberazione di Auschwitz?
I giovani europei vivono in una dimensione digitale iperconnessa lontanissima da quella della Seconda guerra mondiale. Eppure la testimonianza di storie come quella di Oleg è ormai provato da anni che li aiuta moltissimo nella loro formazione. Le nuove guerre che si sono riaperte poi nel mondo sono tornate a impaurire ed a far riflettere i ragazzi: chi ha vissuto la guerra e l’abominio più assoluto dei campi di sterminio quando era giovane allora ecco che diventa strumento di enorme curiosità e apre inquietanti e misteriose riflessioni.
Quale messaggio spera rimanga più forte nel cuore dei lettori?
Non ho l’illusione che il suo sia un messaggio di pace, in un mondo che riscopre la soluzione della guerra come modalità per risolvere complessi dilemmi. Ma ho il sogno che la sua storia sia una forma di giustizia riparativa non solo per chi subì quelle atrocità allora, ma per chi le sta subendo tutt’oggi. E che queste parole nel tempo servano a influenzare le coscienze collettive nella costruzione di un nuovo codice mondiale che ambisca ad azzerare ogni forma di violenza sulla terra.