Laici o fedeli?
Etica della vita, una rubrica di Gabriele Semprebon
Sovente, nel dibattito bioetico, si fa appello alla categoria della laicità e della fede, opponendo l’una all’altra; occorre fare un po’ di chiarezza. Laico non significa affatto non credente o ciò che è opposto a cattolico, non indica né un credente, né un agnostico, né un ateo, laico è ciò che si riferisce alla capacità di distinguere quello che è dimostrabile razionalmente da quello che invece è oggetto di fede. Il termine distingue ambiti di competenze differenti e quindi può distinguere benissimo lo Stato dalla Chiesa senza per questo contrapporli. Occorre ancora distinguere tra laico e laicista, termine usato per designare un’arroganza aggressiva ed intollerante opposta a quella del clericalismo. La laicità non s’identifica a priori con una professione di fede precisa ma nemmeno con alcuna filosofia o ideologia. Chi tanto tiene a far emergere la laicità, spesso contraddice sé stesso nel voler essere riconosciuto come laico, ma che tale non è in quanto sta professando un’ideologia, ponendosi sullo stesso piano concettuale di chi sta professando una fede. Il rispetto laico della ragione non è garantito a priori né dalla fede né dal suo rifiuto; quindi, quelle persone arroganti ed ignoranti che si credono più avanzate degli altri solo perché non professano una fede sono l’esatto contrario e la rovina di un uso retto della ragione. Questo è il laicismo deteriore.
In bioetica, allora, come conciliare (se si possono conciliare) ragione e fede? Il problema è troppo ampio per abbozzare qui una risposta, rammento solo qualcosa del pensiero del compianto Francesco D’Agostino secondo il quale l’aggettivo laico dovrebbe scomparire, soprattutto nel dibattito bioetico, in quanto le antinomie formulate nei discorsi a carattere bioetico come laicità/religione, ragione/fede ecc., non fanno altro che generare molta confusione. La confusione c’è perché alla base delle diverse problematicità c’è la lacerazione tra senso e significato. Questo è il frutto dell’imperante nichilismo che ha accerchiato e vinto anche la disciplina della bioetica. Per il nostro autore, la carta vincente è quella di “risemantizzare l’agire”, cioè, ritenere intollerabile lo scarto tra senso e significato. D’Agostino continua dicendo che nella bioetica non si possono fare scorciatoie, è una scorciatoia la “dogmaticità” ma è altrettanto scorciatoia il compiacersi di uno spirito critico contrapposto a quello dogmatico. Una bioetica autentica dovrà ricercare la verità come orizzonte di senso in quanto ha senso perché la verità esiste e, oltretutto, non avrà mai fine perché l’uomo non potrà mai impossessarsi della verità in modo definitivo. Questa visione, a detta dell’autore, aiuta ad uscire da un laicismo banale e allo stesso tempo a rinunciare alle trappole di un dogmatismo che crede nella possibilità dell’uomo di poter possedere la verità per intero.