Vivere l’anno giubilare come occasione unica per rinnovare la mente
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Nel romanzo Cent’anni di solitudine, Gabriel Garcia Marquez racconta che i familiari del colonnello Aureliano Buenadìa gli stavano intorno per fargli festa, ricordandogli che quello era per lui un giubileo. Al ché lui rispose che non sapeva nemmeno di che cosa si trattasse. E comunque, qualunque cosa fosse, si sarebbe trattato certamente di una beffa. A restare troppo in superficie anche oggi si corre il rischio di pensarla un po’ alla Buenadìa, confinando l’anno giubilare dentro i contorni dell’affare. Che si tratti di uscite turistiche, scambiate per pellegrinaggi (cosa seria su cui bisognerebbe invece riflettere con maggiore preparazione), che si pensi alle indulgenze, come facili scappatoie alternative alla conversione, o che si concentri l’attenzione sul giro di soldi, l’impressione dell’affare resterebbe comunque identica. E nulla è più pericoloso dell’affare quando c’è di mezzo la fede, perché quello è il momento in cui si rischia di svuotare il cattolicesimo del cristianesimo che si porta dentro. E non per colpa del capitalismo, come ci direbbe il buon Carlo Marx, ma a causa dei consumatori, i sacerdoti di questo nuovo culto, i quali hanno fatto dei negozi le loro chiese e del bancomat la nuova liturgia. Non che fare la spesa sia da demonizzare. A finire sotto accusa è piuttosto il pericolo dell’idolatria, che scatta quando si pensa di star bene solo grazie alle cose che riusciamo a comprare, facendo a meno di Dio.
Il giubileo è una proposta seria per uscire da questo rischio, attraverso un tempo che diventi occasione per un cambio di mentalità. Lo sapevano bene i nostri fratelli ebrei quando, secoli prima dell’avvento di Gesù, decisero di suonare il jobel, ossia il corno del montone da cui prende nome il giubileo, per annunciare un anno di riconciliazione e di liberazione. Prima, ogni sette anni e poi ogni sette volte sette anni, ossia il cinquantesimo anno. C’erano due idee sottostanti a quella scelta. La prima era che durante i sei anni che precedevano quello giubilare, gli uomini lavoravano, mangiavano, bevevano, imbrogliavano, commettevano ingiustizie, sopraffazioni… Era la terra, (Gesù avrebbe detto il mondo) che si impadroniva delle loro menti, del loro animo, mettendo in piedi stili di ingiustizia sociale e mancanza di rispetto per il creato. Era importante tornare a indossare gli… occhiali del settimo giorno, quello di Dio, per vedere le cose con i suoi stessi occhi e tornare a vivere la fraternità, secondo il suo progetto. Va da sé, partendo da questa premessa, che fare giubileo non si esaurisce in qualche devozione, in qualche proposito morale, ma deve sfociare in un diverso modo di pensare, di valutare gli orizzonti esistenziali, le nostre relazioni, gli scenari della fraternità universale… Una seconda convinzione legata all’idea di giubileo dipendeva dalla convinzione che Dio si comunica nel tempo. Sono stati gli uomini a legare Dio ai luoghi. All’Arca prima, poi al tempio, alle chiese, alle moschee… Ma Dio non è Dio dei luoghi, ma delle persone che vivono nel tempo. Lui è il proprietario del tempo, essendo l’eterno e accompagna le sue creature che vivono dentro lo spazio temporale dove si consuma il breve tragitto della loro vita, per mettersi al loro fianco, trasformando i giorni dell’incontro in occasioni di Grazia.