Le facili condanne quando di mezzo ci sono preti e suore
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
La cronaca dei giorni scorsi ci ha consegnato un fatto quanto mai doloroso. Nel bresciano sono state arrestate venticinque persone, colpevoli di aver favorito il clan dei Tripodi, una famiglia calabrese legata alla ‘ndrangheta. Tra le persone arrestate anche una suora, per 15 anni volontaria nel carcere di San Vittore. Per i media la notizia ghiotta è sembrata prevalentemente questa. E, infatti, a fronte della stringatezza con cui si è parlato degli altri arrestati, citati solo col nome, per lei, giornali e televisioni sono andati a gara nel metterla alla gogna, pubblicando e mostrando la sua faccia e raccontandoci ogni dettaglio della sua vita.
Lontano da me volerla assolvere perché esponente della Chiesa. Sarà la giustizia a dirci quanto davvero sia responsabile dei fatti criminosi che le vengono addebitati. Nel chiostro dei canonici della Cattedrale di Verona c’è ancora una gattabuia, con tanto di portone d’epoca, che fungeva da carcere per il clero. Se poi andate a vedere alla destra del portone del Vescovado, c’è una scritta latina che la dice lunga: Probis improbisque par aditus, dispar exitus (per gli onesti e i disonesti, l’entrata è uguale ma…). L’ingresso è uguale per tutti, ma è l’uscita che può essere diversa, considerato che proprio di fronte sta la torre carceraria del Quattrocento destinata ai preti. Tutto questo per dire che nessuno, neppure tra i consacrati, deve mai sentirsi al sicuro dal fascino del male.
Ciò premesso, faccio mio quanto diceva un volontario nelle carceri italiane, parlando di suor Anna: se hanno arrestato lei, dovranno mettere in galera tutti noi. E lo spiegava dicendo che i consacrati che vanno dentro le carceri, sono orecchi e cuore per ascoltare e tenere uniti i prigionieri alle loro famiglie. “Potresti dire ai miei?… Porteresti questa lettera a casa di mia madre?… Potresti portare un regalo al mio bambino? Quanti sono i bisogni, i desideri, le ferite di un carcerato?
Gli inquirenti hanno precisato che suor Anna non ha mai avuto vantaggi dal suo operato. Semplicemente lei era la persona di cui si serviva la cosca per sapere in quale stato d’animo si trovavano i detenuti, fatto importante per capire se corressero il rischio di qualche cedimento psicologico, rivelando fatti criminali riguardanti la ‘ndrangheta. Su questi dati io mi fermo, per concedere la buona fede, salvo smentite, a questa donna che ha servito senza avere nulla in cambio, mentre lascio alla correttezza di chi indaga chiarire se era davvero un mostro o se il mostro l’hanno creato sbattendola in prima pagina.
Non sembra invece avere dubbi Roberto Saviano che sulle pagine di Repubblica spiega, a modo suo, che la mafia, come la camorra e la ‘ndrangheta fioriscono da uno strano intreccio sociale, tra le imprese che hanno bisogno di soldi e che quindi vanno da chi i soldi li ha, magari sporchi e da riciclare, visto che le banche hanno il braccino solo in entrata, la politica che guarda altrove e la religione, usata per darsi un’ipocrita parvenza di onestà. Forse, dalla sua prigione dorata, Saviano non ha tempo per vedere che cosa fa realmente la Chiesa per gli ultimi, dalle carceri agli immigrati, dai poveri agli ammalati… O forse lo sa, ma questo non fa gioco alle sue teorie.