Chiesa e democrazia, un ritorno alle radici
Per la pace, per la gente fino al sacrificio
Ringraziamo lo storico Fabio Montella per aver condiviso con Notizie una sintesi del suo intervento nel corso delle celebrazioni per l’80° anniversario dei “Fatti d’armi di Limidi” sul tema “Clero nella tempesta – I Fatti di Limidi il contributo dei religiosi nella lotta al nazifascismo”. E’ un ulteriore tributo che dobbiamo a tanti sacerdoti, religiosi e religiose che con la loro testimonianza, in alcuni casi fino all’estremo sacrificio, hanno posto le basi di un avvenire di pace e di democrazia che ora faticosamente anche i cattolici sono chiamati a rigenerare.
di Fabio Montella, Istituto Storico di Modena
I “fatti d’armi di Limidi” – ovvero la catena di eventi che ha portato ad uno scambio di prigionieri tra partigiani e tedeschi – fu un evento raro, per quanto non unico, nella storia della guerra totale che si combatté sul suolo italiano tra il 1943 e il 1945. I tedeschi, appoggiati dai loro alleati della Repubblica Sociale (Rsi), condussero una guerra di annientamento tremenda, segnata da rastrellamenti, deportazioni e stragi, che non risparmiarono i civili inermi.
A causa della brutalità nazifascista, ma anche per gli “effetti collaterali” dell’avanzata alleata, migliaia di persone persero la vita sul nostro territorio. E tra di loro non mancarono i sacerdoti. Ricordiamo don Amadio Po, parroco di Santa Giustina di Mirandola, ucciso il 17 novembre 1944 dal proiettile di un aereo alleato mentre, affacciato alla finestra della canonica, stava avvisando alcuni bambini del pericolo. E ricordiamo don Alberto Fedozzi, parroco di Quarantoli, che morì il 10 gennaio 1945 nel bombardamento di un treno. A 80 anni di distanza, sono tra le vittime dimenticate della seconda guerra mondiale.
Tra i religiosi della Diocesi di Carpi la scelta di campo fu netta. Nella stragrande maggioranza dei casi, i sacerdoti, le suore e i frati si schierarono a favore dei perseguitati da nazisti e fascisti: ebrei, renitenti alla leva, disertori della Rsi, partigiani. Quasi nessuno scelse la via più semplice, ovvero appoggiare chi deteneva le leve del potere e mostrare fedeltà al fascismo, che pure con i Patti Lateranensi aveva saldato il rapporto tra Stato e Chiesa. I religiosi della nostra Diocesi, compreso il vescovo, monsignor Vigilio Federico Dalla Zuanna, scelsero di non adagiarsi sulla condizione di privilegio che dava loro il Concordato, ma di agire e di “sporcarsi le mani” verso chi soffriva; a partire da chi professava un’altra religione: gli ebrei.
Questi religiosi tennero fede alla propria missione, ma interpretandola alla luce di quanto di orribile scorreva sotto ai loro occhi. E la necessità dei tempi li indussero, all’occorrenza, a disobbedire alle leggi dell’uomo in nome di principi superiori di umanità. Lo scrisse nero su bianco don Zeno, in un libretto pubblicato nel 1941. Per il prete di San Giacomo Roncole la guerra derivava da un «malinteso senso del progresso» e non dal «castigo di Dio per i peccati dell’uomo», come, appena un anno prima, aveva ripetuto il vescovo Carlo De Ferrari (riprendendo una tradizionale visione della dottrina della Chiesa). E riflettendo sul tema dell’obbedienza all’autorità costituita, don Zeno aveva detto che essa era dovuta «solo in quelle cose che non sono in contrasto con la nostra fede». Un’affermazione che nel momento in cui i sacerdoti, a partire dalla fine del 1943, si sarebbero trasformati in disobbedienti e amici dei “ribelli”, avrebbe rivelato tutta la propria pregnanza. A partire da quanto accadde a don Elio Monari, uno dei sacerdoti che tra il 2 e il 3 febbraio 1943 avevano sottoscritto lo Statuto dei Sacerdoti Piccoli Apostoli di don Zeno (gli altri erano don Ennio Tardini, don Arrigo Beccari, don Nino Magnoni, don Giuseppe Diaco e don Luigi Bertè). Con la firma sullo Statuto i sette sacerdoti si impegnarono «a immolarsi corpo e anima nel santificare tutte le forme della vita del popolo, percorrendo e precorrendo l’indole e l’esigenza dei tempi». E fu proprio «immolarsi» il destino al quale andò incontro don Monari, arrestato dopo essersi unito ai “ribelli” della montagna. Trasferito a Firenze, fu torturato dai fascisti della “Banda Carità” e fucilato alle Cascine il 16 luglio 1944.
I “fatti d’armi di Limidi” sono una specie di summa dell’impegno dei religiosi per i perseguitati. C’è il prete arrestato e trasferito come ostaggio all’Accademia militare (don Walter Silvestri, parroco di Limidi), c’è il sacerdote che offre conforto materiale ai parrocchiani (don Antonio Cavazzuti di Soliera) e c’è Dalla Zuanna che contribuisce fattivamente allo scambio di prigionieri. Proprio il vescovo, scrivendo a don Silvestri nel 1955, ricorderà l’episodio di Limidi come «la data più bella e che più ricordo della mia vita pastorale». Ma varrebbe la pena ricordare tutti i religiosi “schierati”, che furono uomini ma anche tante donne: quante sono le suore dimenticate, in questa storia… Vanno ricordati don Giuseppe Manicardi, parroco di Panzano, don Alessandro Marchetto di Gargallo, don Francesco Venturelli, che si spese per i perseguitati del campo di concentramento di Fossoli, don Dante Sala, che salvò ebrei a San Martino Spino, don Ivo Silingardi e tanti altri.
Nelle rispettive comunità erano persone ascoltate e seguite, che vissero con responsabilità la loro leadership, non scegliendo l’equidistanza tra le parti in campo. Perché l’equidistanza avrebbe fatto pendere la bilancia dalla parte del più forte, che per molto tempo è stato il tedesco invasore. E allora, questi religiosi ritennero giusto schierarsi con una delle due parti in lotta: quella che stava faticosamente affermando i valori di solidarietà e di rispetto della dignità umana. In una guerra totale, che faceva strage di civili, la neutralità avrebbe significato ignavia. E allora – devono avere pensato molti dei religiosi delle nostre Diocesi – meglio disobbedire e ribellarsi, anche a rischio della vita, piuttosto che finire in quella vasta zona grigia della non scelta, nella quale sprecano la loro esistenza gli apatici e i codardi.