Intervista a don Gianluca Mangeri
Culturalmente, rubrica a cura di Francesco Natale
Laureato in medicina e specialista in oncologia, poi diventato sacerdote e ora cappellano in un ospedale di Brescia, don Gianluca Mangeri, protagonista di questo nuovo appuntamento di CulturalMente, è autore di “Pellegrino in corsia. A tu per tu con la Speranza” (Ed. Paoline, 2024).
Perché gli studi in oncologia?
Mi sono specializzato in oncologia perché già nei primi anni di medicina vedevo che in ogni reparto dove facevo il tirocinio c’erano dei malati oncologici, per cui mi sono reso conto che ogni malato oncologico che incontravo era lui stesso che mi interpellava, nel senso che magari dovevo raccogliere le sue storie cliniche e si raccontava in realtà tutt’altro. Allora mi sono accorto che c’era una chiamata per specializzarsi in oncologia.
C’è una connessione tra l’essere sacerdote e l’essere medico?
Quando ero medico mi interessavo molto della vita clinica dell’altro, adesso mi occupo soprattutto della vita spirituale, però diciamo che l’essere medico mi ha aiutato molto a capire molto della vita spirituale. Per esempio quando c’è una ferita profonda c’è sempre una diagnosi da fare, tu devi intercettare qual è la ferita e poi dare una terapia, quindi dare un sollievo, quindi chiedere al Signore che ti aiuti a curare in profondità, per cui c’è sempre un’analogia tra l’essere medico e l’essere medico anche dello spirito e quindi sacerdote.
Parliamo del libro, ci sono varie storie che lei racconta, ce n’è una che l’ha colpita particolarmente?
C’è una storia di una bambina a cui ho dovuto fare il battesimo praticamente in sala parto. È stato molto emozionante entrare in sala parto, ma lo è stato soprattutto entrare per fare un battesimo e tra l’altro fare un battesimo di una bambina che sapevamo che era già terminale, perché era affetta da una malattia incompatibile con la vita e quindi destinata a morire. Ha resistito 46 ore, ma quelle 46 ore sono state delle ore fantastiche nel senso che hanno dato gioia a tutta la famiglia, io ricordo quando l’ho battezzata, erano tutti commossi anche gli operatori, insomma è stato un momento di dolore e di grazia allo stesso tempo.
Quindi il ministero di cappellano in ospedale è un po’ come unire la missione sanitaria con quella spirituale…
È stata la provvidenza che si fa viva attraverso anche il Vescovo. Dopo qualche anno di parrocchia il Vescovo mi ha detto “Adesso è il momento che devi mettere a frutto anche la tua competenza come medico, ma soprattutto ti mando in un ospedale”. E tra l’altro, lui non lo sapeva, ma mi ha mandato nello stesso ospedale dove io ho cominciato a fare il tirocinio appena laureato. È un grande significato per me anche questo.
La medicina può salvare delle vite, ma anche la fede può farlo?
Sì, la fede può salvare delle vite in modo incredibile, nel senso che anche quando uno è malato non si lascia abbattere dalla malattia, non si lascia abbattere dalla paura o dall’angoscia, grazie alla fede riesci a fare un percorso, ecco che lì riesci a essere veramente risanato e risanato in profondità. Tante volte è davvero un miracolo, proprio il miracolo della fede negli ammalati, che non guariscono dalla malattia, ma riescono a far sì che l’abbattimento della malattia non li sopraffaccia e quindi riescono a far vincere la vittoria della pace in loro stessi. Questa è già una vittoria e quindi è una vittoria della fede.
La speranza è un tema che ricorre nei suoi libri, ma ricorre anche nella sua vita?
Sì, io sono stato malato di Covid, ho rischiato la terapia intensiva per cui sono uscito dalla prima ondata covid distrutto e in quei giorni la speranza è stata quella che mi ha tenuto in piedi. Speranza di tornare in ospedale, speranza di aiutare chi come me soffriva e difatti la seconda e terza ondata sono state per me un rientro e anche un donare quello che io ho ricevuto, ho avuto salva la vita e ho cercato di dare il massimo per consolare, per aiutare nella mia missione. Quindi la speranza è stata quella che mi ha tenuto in vita e che poi io ho ricevuto e ho cercato di donare.