La disinvoltura nell’uccidere ci interroga seriamente sulla formazione delle coscienze
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Ora che a Paderno Dugnano, nel milanese, si è consumata l’ultima ributtante strage familiare, è cominciata la sagra dei parolai. Ad arrampicarsi al palo della cuccagna, per portarsi a casa un po’ di visibilità, psicologi, opinionisti, esperti dell’horror… Tutti a sfoderare la competenza dei sa tutto per dire che i genitori non conoscono i loro figli, che non si è capaci di cogliere i messaggi del disagio, che il benessere produce anestesia emotiva, che i servizi sociali, che le forze dell’ordine… insomma una ricerca del colpevole a tutti i costi, distribuendo pagelle di bocciatura, a destra e a manca, dall’alto di cattedre mediatiche che sono funzionali soltanto a dare visibilità a professionalità in cerca di rilancio. Come quegli avvocati da mille euro al mese che, pur di andare in televisione, sarebbero disposti a finanziare un santuario alla madonna (rigorosamente in minuscolo) di Trevignano.
In questa cuccagna dei sa tutto, ultimamente sembra che dai colpevoli venga esclusa la Chiesa. Non so se ciò dipenda dal fatto che la maggioranza dei giovani le gira al largo, o non piuttosto dal fatto che, parlare di fede, oggi sembra una anomalia per gente fuori dal tempo. Comunque la si pensi, se c’è invece un argomento che dovrebbe essere messo a tema, questo riguarda proprio la dimensione spirituale nella formazione delle nuove generazioni. Mi colpiva nei giorni scorsi il commento di molti che avevano conosciuto Moussa Sangare, il giovane che ha accoltellato e ucciso senza motivo la giovane Sharon, nella bergamasca. Finché frequentava l’oratorio era un ragazzo tranquillo e sereno come gli altri, dicevano, poi… Poi l’esperienza della droga, delle periferie delle metropoli in balia dello sbando avevano fatto il resto.
Il vangelo della scorsa domenica ricordava che «non c’è nulla fuori dall’uomo che, entrando in lui possa renderlo impuro ma è dal di dentro, cioè dal cuore che escono i propositi di male». E tra questi, non a caso, si parlava espressamente di omicidi. Il cuore. Parola complessa. Nella lingua ebraica viene scritta con tre piccoli segni, i primi due perfettamente uguali. I saggi ci ricordano che questi indicano le due parti del cuore, quella buona e quella incline al male, in perenne battaglia tra loro per fare in modo che la luce abbia la vittoria sulle tenebre. Oltre i simbolismi, il cuore è qui a ricordarci le radici profonde da cui scaturiscono le nostre azioni. L’intelligenza, la volontà, la psiche, i sentimenti, ossia tutto quel bagaglio che potremmo definire come coscienza, ossia il motore ispiratore del vivere.
Mi chiedo e ci dobbiamo chiedere quale spazio abbia oggi l’educazione della coscienza. Non solo da parte dei preti. Anche se bisognerà prima o dopo interrogarsi su come parlare ai ragazzi, fuori dalle forme stereotipe del catechismo. È vero che il brusio del mondo tende a stordirli, facendone degli audiolesi, ma non è possibile neppure gettare la spugna, lasciando il podio ai concorrenti senza anima, quasi che la Grazia avesse deciso di abbandonare l’umanità ai destini della sua stoltezza. Educare la coscienza è compito, oltre che della Chiesa, soprattutto della famiglia e, non ultima, della scuola. E bisogna farlo tornando a parlare di Dio perché se cade Dio, che è il Bene, dall’orizzonte umano, la prima a cadere è la creatura umana. È un detto antico di straordinaria attualità. Rimosso Dio, diventato inutile, e rimossa la natura, che di Lui sarebbe comunque espressione e richiamo, ormai si procede a tentoni in cerca di maestri, tali solo per la capacità di imporsi mediaticamente. Più attenti a rubarci il cuore, che a metterci ordine.