Il senso della giustizia di Dio che si comprende dal dialogo tra un padre e il figlio assassino
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Che in carcere si usino le microspie per carpire conversazioni tra carcerati e loro famigliari, ci sta. Che le informazioni carpite vengano allegate agli atti processuali per fare maggiore chiarezza sul perché di un crimine, ci sta. Che la conversazione tra un padre disperato e un figlio criminale, si immagina e spera anche lui disperato, venga pubblicata sui giornali, ci sta a rigore di legge. Un po’ meno sul piano dell’opportunità. Ma vediamo il perché. È il 3 dicembre dello scorso anno. Nel carcere di Montorio Veronese, da alcuni giorni è arrivato Fabio Turetta. È stato estradato dalla Germania, dopo una fuga, come un moderno Caino, lungo le strade della solitudine e del disprezzo umano. È figlio unico e i suoi genitori non l’hanno più visto da quell’11 novembre quando, nella sua mente impazzita, ha deciso di uccidere, con una crudeltà irracontabile, la sua ex fidanzata, Giulia Cecchettin. Un delitto che ha tenuto l’Italia col fiato sospeso, diventando l’emblema di cosa può diventare un uomo quando decide di fare della donna una cosa e una sua proprietà.
I genitori di Filippo, che hanno conosciuto la gogna di tanti, troppi sadici, che imputano loro la follia omicida del figlio, aspettano di incontrarlo e guardarlo in faccia per la prima volta, perché un figlio rimane pur sempre tale. L’appuntamento è sempre rimandato perché la ressa di giornalisti e fotografi fuori dal carcere ha il tono di una resa dei conti dove la lama della curiosità rischia di colpire ferite aperte incapaci di rimarginarsi. Poi, furtivamente, dribblando i cronisti, finalmente l’incontro arriva. Con tanto di microchip, pronti a registrare anche il più piccolo sussurro. Il resto è di questi giorni, quando un tabloid pubblica una parte della conversazione tra padre e figlio. «Eh, va beh, hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza… Quello è. Non sei un terrorista, voglio dire… Devi pensare che piano, piano… devi farti forza. Non sei l’unico… Ci sono stati parecchi altri. Ci sono altri 200 femminicidi. Poi avrai i permessi di lavoro, la libertà condizionale…». Queste le parole di Nicola padre a suo figlio Filippo, assassino.
Difficile immaginare l’esito di questa conversazione sull’opinione pubblica. Parole che rasentano l’involontaria ironia, o il pelo sullo stomaco, se non fossero uscite dalla bocca di un padre, che tenta di alleviare la disperazione di un figlio che si è perso: “non sei uno che ammazza le persone” e poi “ce ne sono tanti altri”. Di sicuro, parole che potranno prestarsi alla demonizzazione di una famiglia, colpevole solo di avere un figlio colpevole. Se oggi, anche noi riportiamo queste parole è solo per ricordare che, tra la giustizia umana e quella di un padre, corre l’abisso che separa le aule di un tribunale da quelle dell’amore. Lo stesso che corre tra il giudicare degli uomini e il fare giustizia di Dio che non rinuncia mai a recuperare la dignità perduta dei suoi figli. Concetti che anche i cristiani hanno finito per confondere, trasformando il giudizio di Dio in una resa dei conti, una sentenza inappellabile. Il Dies Domini, cioè il giorno dell’incontro con il Signore che libera dalle nostre mutilazioni e schiavitù, in Dies irae, il giorno dell’ira, rendendo l’inferno ben più congestionato delle nostre strade nelle ore di punta.
Quando nel 1825, mentre Heinrich Heine, vecchio ebreo ateo e peccatore convertito, stava per morire, la moglie iniziò a pregare Dio perché lo perdonasse. Lui interruppe la preghiera dicendo: «Non dubitare, mia cara, lui mi perdonerà. È il suo compito». Così fanno i padri.