Profeti della ferialità
Una chiesa presente in situazioni e luoghi
di Luigi Lamma
Le positive e impegnative conclusioni della Settimana Sociale di Trieste che i delegati hanno restituito al loro ritorno, di cui abbiamo dato e daremo riscontro su queste pagine, sono solo l’ultimo passaggio di una rinnovata attenzione al “bene comune” che anima l’agire quotidiano delle comunità cristiane. Un’attenzione che si esprime non solo nell’espressione della “carità politica” che ha visto, ad esempio, tanti cattolici impegnarsi nelle recenti competizioni elettorali per le amministrazioni locali, ma anche in molteplici forme di presenza e di animazione del territorio che spesso non trovano adeguato riscontro e riconoscimento pubblico. Non si tratta solo di un limite della comunicazione, del poco spazio assegnato alle “buone notizie”, ma di acquisire la consapevolezza di quanto e in che modo, la fede, che genera la testimonianza cristiana nel mondo, rappresenti un vero bene per tutti. Nei giorni scorsi durante la riunione di verifica e programmazione degli uffici pastorali della diocesi questa dimensione è apparsa in modo nitido.
Dalla scuola alla sanità, dall’emergenza migranti al dialogo ecumenico e interreligioso, dalle povertà diffuse alla tutela del creato, per non parlare dello sforzo titanico per assicurare luoghi e persone dedicati all’accoglienza e alla formazione di adolescenti e giovani tramite gli oratori e le associazioni. Una citazione merita la realtà dei centri estivi promossi da parrocchie e associazioni che su Notizie abbiamo censito ad inizio estate e che aprono le porte a centinaia di bambini e adolescenti, questi ultimi non solo come utenti ma con l’inattesa richiesta di poter rendersi utili cogliendo di sorpresa anche gli stessi organizzatori. Di fronte a questo fermento, a questo brulicare di relazioni che hanno al centro le persone con i loro bisogni profondi, che rendono il vangelo vita vissuta, non si può rimanere indifferenti o indugiare nel piagnisteo delle “chiese vuote” e dei giovani che abbandonano la pratica religiosa.
C’è in tutto questo “la profezia della ferialità” e lo “scandalo della fede” di cui ha parlato il Papa nell’omelia del 7 luglio scorso a Trieste, quando con particolare veemenza lo ha così descritto: “Non abbiamo bisogno di una religiosità chiusa in se stessa, che alza lo sguardo fino al cielo senza preoccuparsi di quanto succede sulla terra e celebra liturgie nel tempio dimenticandosi però della polvere che scorre sulle nostre strade. Ci serve, invece, lo scandalo della fede, – abbiamo bisogno dello scandalo della fede – una fede radicata nel Dio che si è fatto uomo e, perciò, una fede umana, una fede di carne, che entra nella storia, che accarezza la vita della gente, che risana i cuori spezzati, che diventa lievito di speranza e germe di un mondo nuovo. È una fede che sveglia le coscienze dal torpore, che mette il dito nelle piaghe, nelle piaghe della società – ce ne sono –, una fede che suscita domande sul futuro dell’uomo e della storia; è una fede inquieta, e noi abbiamo bisogno di vivere una vita inquieta, una fede che si muova da cuore a cuore, una fede che riceva da fuori le problematiche della società…”.
Dovrebbe essere così per tutti, eppure le espressioni di una religiosità chiusa, che alza lo sguardo al cielo senza preoccuparsi di quanto accade sulla terra, le abbiamo viste all’opera e si insinuano all’interno della chiesa con la presunzione di detenere la verità. C’è voluta una scomunica per scisma ad un noto monsignore per ricordare a tutti che non si può stare nella Chiesa cattolica rifiutando “di riconoscere e sottomettersi al Sommo Pontefice, la comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti e la legittimità e dell’autorità magisteriale del Concilio Ecumenico Vaticano II”. Ritorno alle parole del Papa perché ci ricorda che “talvolta ci scandalizziamo inutilmente di tante piccole cose”, mentre “faremmo bene invece a chiederci: perché dinanzi al male che dilaga, alla vita che viene umiliata, alle problematiche del lavoro, alle sofferenze dei migranti, non ci scandalizziamo? Perché restiamo apatici e indifferenti alle ingiustizie del mondo? Pertanto ché non prendiamo a cuore la situazione dei carcerati? Perché non contempliamo le miserie, il dolore, lo scarto di tanta gente nella città? Abbiamo paura, abbiamo paura di trovare Cristo, lì. Gesù ha vissuto nella propria carne la profezia della ferialità,…così anche noi cristiani: siamo chiamati a essere profeti, testimoni del Regno di Dio, in tutte le situazioni che viviamo, in ogni luogo che abitiamo”. Con queste reali e solide premesse si apre la terza fase, quella delle scelte profetiche, del Cammino Sinodale, e la Chiesa di Carpi c’è.