Rigenerare democrazia
Commenti e testimonianze dei delegati dopo le giornate vissute a Trieste per la 50ª Settimana Sociale dei Cattolici
di Federico Covili, Presidente del Centro culturale F. L. Ferrari Delegato alla Settimana Sociale di Trieste
Una delle fatiche che vive la Chiesa (non da oggi) è quella di saper comunicare con il mondo. Come raccontare il suo messaggio sempre antico e sempre nuovo in forme comprensibili, capaci di intercettare le esigenze dei tempi che stiamo vivendo? Questo è vero anche in politica, dove i cristiani impegnati, negli ultimi anni, si sono ritrovati a vivere una doppia solitudine, nella difficoltà di comunicare all’interno e all’esterno della comunità cristiana. Si capisce che non è solo questione di parole: dare un nome alle cose che si vivono significa trovare risposte adeguate ai cambiamenti della società, senza rinunciare alla nostra fede, ma anzi trovando, a partire da essa, la giusta chiave di interpretazione.
Il primo messaggio che arriva da Trieste sono proprio queste parole nuove. La forma e il contenuto delle relazioni di questi giorni sono stati molto diversi da ciò che siamo abituati a sentire nella politica nazionale, ma anche da ciò che ci si potrebbe immaginare da un classico contesto ecclesiale. La Chiesa italiana ha voluto lanciare messaggi forti e chiari. Abbiamo sentito parole nuove, coraggiose, concrete, espressione di un Paese generativo che esiste già ma che spesso non ha voce. Parole che aprono al dialogo, che mettono in moto percorsi. I relatori erano bilanciati per genere e per età, e questo ha consentito di mettere in luce punti di vista diversi ma appartenenti a una stessa visione di bene comune.
Una visione che ci porta direttamente al cuore della democrazia, perché essa non è solo un metodo o un sistema intercambiabile con altri. La democrazia è un valore in sé, il sistema migliore per far “fiorire” le persone, dare loro la possibilità di essere libere e trovare la propria realizzazione. Per curare il cuore “infartato” (definizione di Papa Francesco) della democrazia, possiamo ricorrere alle scorciatoie di leadership carismatiche, populismi o tecnocrazie, finendo però per non risolvere e addirittura aggravare la situazione. Oppure possiamo andare più in profondità e scoprire che, alla radice, c’è il problema della partecipazione che è l’esatto opposto dell’individualismo e della “cultura dello scarto”. E la partecipazione non si improvvisa, ha bisogno di essere costruita con l’ascolto delle persone, soprattutto di chi vive ai margini e in quei luoghi dove – non è un caso – si registrano grandi tassi di astensionismo o di lontananza dalle istituzioni. C’è bisogno di battersi perché non ci possano più essere “analfabeti di democrazia”, secondo la definizione del presidente Mattarella, un obiettivo che chiama alle proprie responsabilità anche la Chiesa.
Ma non basta trovare le parole giuste e nemmeno individuare la radice del male e una possibile cura. Occorre tracciare dei percorsi per arrivare a una guarigione. Nasce da qui la “rete di Trieste”. Circa ottanta tra sindaci, consiglieri comunali e persone attivamente impegnate in politica, di diverse provenienze geografi che e politiche, hanno firmato una dichiarazione di intenti, con l’impegno di rivedersi in autunno e dare vita a un dialogo sempre più profondo e virtuoso. Si parte dalle istituzioni locali per mettere in relazione le esperienze migliori e le buone pratiche, provare a diffondere il vento di democrazia che ha soffiato forte a Trieste. Non si tratta di un fantomatico “partito dei cattolici”, soluzione che appare fuori luogo. Non occorre contarsi ma contare, non occorre un partito, ma piuttosto uno spartito da consegnare a un Paese che appare a tratti senza voce e senza speranza. Di fronte a questo compito, la Chiesa e i cattolici non possono tirarsi indietro.