Nel Concilio le radici dell’impegno
Davanti alle sfide di questo tempo incerto riflessioni sul rapporto tra Chiesa e potere e tra fede e politica
di Christian Makangi Eduwe, seminarista
Alcuni mesi fa ci sono state le elezioni regionali in varie regioni italiane; adesso tutti abbiamo seguito le elezioni amministrative ed europee dell’8 e 9 giugno, dove milioni di Italiani ed Europei sono stati chiamati alle urne per eleggere i propri amministratori e rappresentanti a Strasburgo. Non pochi, tra i candidati, si professano cristiani cattolici. Da qui nasce il bisogno di pensare al rapporto intercorrente tra fede e politica e di riflettere sul tipo di contributo che la fede può offrire alla politica per il bene della società umana. Le varie confessioni religiose offrono risposte diverse in merito a queste questioni e ciò, non senza conseguenze per il modo in cui ciascuna di esse si relaziona con l’autorità politica. Il cristianesimo ha avuto, fin dalle sue origini, un rapporto complesso con il potere politico. Lo sviluppo storico di questo rapporto è caratterizzato da momenti diversi come il sospetto reciproco al tempo dei primi cristiani, la cristianizzazione dell’Impero, le dispute del Medioevo sulla supremazia del potere religioso su quello politico o viceversa, le varie fasi della secolarizzazione e, infine, la scomparsa del potere temporale della Chiesa alla fine del XIX secolo. Con il Concilio Vaticano II, la Chiesa, soprattutto con documenti Gaudium et Spes, Apostolicam Actuositatem, Nostra Aetate e Dignitatis Humanae, ha dato un importante impulso sia in merito al rapporto tra Chiesa e politico sia riguardo all’impegno dei singoli fedeli cattolici in politica.
La Chiesa non è del mondo, ma non può che operare nel mondo e, siccome i suoi membri sono sia cittadini sia fedeli “incorporati a Cristo mediante il battesimo” e, quindi, “costituiti popolo di Dio”(CIC 204 §1), non può in alcun modo sottrarsi al dialogo con il potere politico e al confronto con la società. In un discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, l’8 gennaio 1966, Paolo VI dichiarava: “(la Chiesa) si libera dagli interessi di questo mondo solo per poter meglio penetrare nella società, per mettersi al servizio del bene comune, per offrire a tutti il suo aiuto e i suoi mezzi di salvezza”. Le parole di Paolo VI riassumono tutto il pensiero della Costituzione pastorale Gaudium et Spes, la quale, già nelle prime righe dice che la Chiesa “si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”. (GS 1§3), evidenziando al numero tre la necessità di un dialogo costante con la famiglia umana. Esponendo nel modo ancora più dettagliato il ruolo della Chiesa nel mondo, il Concilio dice che “la missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di ordine politica, economica o sociale, ma religiosa” (GS 42§1), però, “da questa missione religiosa scaturiscono funzioni, luci e forze che possono servire a costituire e rafforzare la comunità degli uomini secondo la legge divina” (GS 42 §2).
Oggi penso sia importante, superare la diatriba sul rapporto Chiesa-Stato e svolgere lo sguardo sulla dialettica credente-cittadino perché, se il primo è regolato da vari trattati internazionali, la seconda, a mio avviso, è parte integrante di quella tensione alla ricerca del bene comune e della testimonianza che ogni cristiano è chiamato a dare ogni giorno nei contesti in cui è inserito. È, perciò, opportuno che i cristiani cattolici, in quanto credenti e cittadini, s’impegnino in politica con la consapevolezza della dimensione sociale e politica della fede. Tuttavia, occorre riconoscere che affermare che la fede ha una dimensione politica può sollevare qualche problema sul suo rapporto con l’agire politico, che è il luogo principale in cui si manifesta l’etica dell’autorità politica, soprattutto in questo tempo di mutamenti, in cui i cristiani cattolici non possono rassegnarsi davanti alle guerre, all’ingiustizia, alla violenza e all’esclusione.
I cattolici impegnati politica devono avere sempre in mente e a cuore il concetto dell’opzione preferenziale per i più deboli e i più poveri, come insegnala dottrina sociale della Chiesa e declinarlo nella loro attività politica. Queste questioni non sono, certo, estranee alla comunità del seminario, perché ci tocca in quanto individui e cittadini, ovvero, parte integrante della comunità civile, ma anche perché tocca le varie realtà e i vari contesti in cui siamo inseriti. Va da sé che su queste tematiche ciascuno di noi ha il proprio pensiero, però, la diversità di vedute arricchisce, perché dà modo di confrontarci nel merito delle questioni, senza ideologie partitiche. Siccome “la politica è la forma più alta di carità”, come sosteneva Papa Pio XI, già nel 1927, i cattolici impegnati in politica siano veramente degli alfieri dei valori umani e cristiani, si facciano portatori di proposte credibili e mettano al centro delle loro attività, non gli interessi di parte, ma l’essere umano.