La preghiera degli alpini che inquieta l’animo di qualche pacifista cattolico
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Ogni tanto da qualche sacrestia fa capolino la polemica sulla Preghiera dell’Alpino, unica associazione al mondo, che inizia ogni incontro con la celebrazione dell’Eucarestia.
Era il 1947, quando nell’archivio della famiglia Sora, cui apparteneva il colonnello Gennaro, straordinaria figura di militare e di cittadino, fu ritrovata una lettera che riportava la preghiera da lui scritta, destinata a diventare uno dei più importanti simboli morali degli alpini. L’aveva scritta a Malga Pader, in Val Venosta nel 1935. La Preghiera si impose da subito, prima ancora che per le parole, per la forza morale che lasciava trasparire, capace di creare un animus, dove fede, pietà, orgoglio e passione civile riuscivano a mettere insieme alpini provati dalla guerra e quelli, con la divisa e il cappello in testa, ancora a servizio della Patria. La Guerra era un ricordo ancora vivo, ma non capace di piegare gli animi dentro la rassegnazione.
L’Italia, per uno di quei miracoli, che solo la nostra indole riesce a fare, a dispetto di tanti pregiudizi, si trovò incamminata dentro un benessere, che la portò ai vertici dello scenario internazionale. Al miracolo economico non si accompagnò però anche un miracolo etico. Il vento del ’68 soffiò forte, spazzando via radici antiche e convinzioni sedimentate. Al vietato vietare, che dava linfa alla nuova cultura dei fai-ciò-che-ti-piace, premessa di una nuova stagione segnata dall’individualismo, si affiancava una crescente ideologia pacifista. La guerra sembrava non esistesse più. Lontana, come il resoconto di qualche esplorazione fuori dal mondo. Neppure a scuola si parlava più delle guerre. Sparite dalla coscienza collettiva, convinta che la pace sociale non sarebbe più venuta meno, fino ai nostri giorni quando la smentita è arrivata dolorosa, trova-doci sorpresi, intimoriti e impotenti.
Oggi qualche cristiano dall’animo pacifista si sente disturbato da quella espressione della preghiera in cui si chiede di rendere forti le nostre armi contri chiunque minacci la nostra Patria. Ma perché modificare un testo storico, si chiedono gli alpini, considerato che nessuno di loro è più in armi e soprattutto dal momento che sulle mani hanno solo i calli del volontariato e, come “arma” nel cuore, hanno la fede e l’amore, come recita la preghiera?
Tutti sanno che gli alpini non fanno uso di armi, ma in quel pacifismo che si nutre di proclami, anche il solo uso della parola finisce per urtare le anime buone. E così qualche incomprensione talvolta esce anche dalla porta delle chiese. Chissà se anche le parole del Salmo 143, là dove si dice: “Benedetto il Signore che addestra le mie mani alla guerra e le mie dita alla battaglia” finirà per inquietare nella stessa misura. Penso che sia il buon senso a incaricarsi di chiarire eventuali incomprensioni, perché se è vero che ogni paese ha un campanile, è altrettanto vero che ogni paese ha il “campanile” simbolico di un gruppo alpini. Gente che alla polemica risponde con l’operosità, alla sfida della cultura individualista con l’umiltà del servizio, all’indifferenza strisciante col farsi carico dei problemi. La Preghiera de l’Alpino è sempre sullo sfondo, come una coscienza e un indicatore di responsabilità. Tanto più oggi, quando i venti di guerra sono tornati a mostrare la faccia della guerra vera che rende quanto mai attuale il bisogno di invocare dall’Alto l’aiuto, perché accompagni i nostri passi, armati come siamo di fede e di amore.