Il rispetto delle religioni non si fa eliminando Dante dalla nostra cultura
In punta di spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Non molto tempo fa ho avuto la fortuna di assistere alla lezione di un bravissimo dantista della Rochester University di New York. Davanti ad un gruppo di neo laureati che avevano fatto le loro tesi sul grande poeta fiorentino, chiese ai presenti, uno ad uno, cosa avessero trovato di così interessante nella Comedia tanto da scegliere di specializzarsi in essa.
La sorpresa fu sentire le diversissime motivazioni. C’era chi era stato affascinato dal Dante politico, chi da quello spirituale, altri parlarono di Dante astrologo e astronomo, della sua capacità di mettere a fuoco le varie psicologie dei personaggi, in una casistica degna di un precursore di Freud… Ricordo un neo laureato che disse d’essere stato affascinato dalla violenza che aveva riscontrato nell’opera. Insomma, tante letture diverse quanti erano i partecipanti al corso.
“Vedete – concluse il professore – proprio partendo dalle vostre osservazioni si capisce che nella Comedia di Dante c’è dentro ognuno di noi”. Nessuno, di nessuna parte del mondo esclusa, perché il bene e il male appartengono, a partire da Caino ed Abele, al Dna umano. Dentro c’è l’umanità intera con tutte le sue miserie e le sue grandezze, con la differenza che Dante fa della storia umana una storia di speranza, che va dall’inferno al paradiso. Dante aveva scelto quel semplice titolo alla sua opera perché, nella cultura greca, la Comedia comincia sempre male e finisce bene, a differenza della tragedia dove, dagli amori di partenza, va a finire sempre che ci scappa il morto.
Era stato Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, a darle il titolo di divina, talmente grande era il suo livello artistico da non poterla considerare opera possibile a una creatura umana. E così, nella prestigiosa edizione stampata da Gabriele Giolito de’ Ferrari nel 1555, la Comedia di Dante viene per la prima volta intitolata come “La Divina Comedia”. Un titolo che finirà per far credere a molti che si tratti di un’opera religioso-confessionale.
La scorsa settimana, un professore del trevigiano, con scarsa dimestichezza culturale, ha suggerito alle famiglie di due ragazzi di religione islamica di chiedere l’esonero per i loro ragazzi dallo studio di Dante, trattandosi di un’opera religiosa cristiana e soprattutto per il fatto che il sommo poeta colloca Maometto all’inferno tra i seminatori di discordia. E va a spiegargli allo sprovveduto docente che, nell’antinferno, Dante mette tra gli ignavi anche un santo, tale Celestino V, che fece, stando al suo giudizio, il gran rifiuto, ossia la rinuncia alla tiara poco dopo essere stato eletto papa. Cosa dovremmo dire: che finiranno per chiedere l’esonero tutti quelli che credono nel papa e nel suo ruolo? E che dire degli omosessuali, il gruppo più numeroso descritto da Dante, tra i quali spiccano politici, giuristi, vescovi e letterati? O degli adulteri (razza anche questa mai in via di estinzione) finiti nel quinto canto dell’inferno? Se poi guardassimo a tutti i peccatori che vengono elencati nell’opera, andrebbe a finire che porteremmo l’opera al macero. Dante guarda la storia con le categorie culturali del tempo in cui vive, ma lo fa con quel respiro di speranza e con il genio di chi riconosce nelle creature la possibilità di infinito.
Che un professore non capisca questo non è problema dei musulmani, ma della sua ignoranza. Con il rischio di creare sacche di intolleranza verso fratelli incolpevoli, che andrebbero aiutati a integrarsi anche attraverso la conoscenza del nostro patrimonio culturale, anziché invitarli a prenderne le distanze. Il declino del nostro Paese non dipende dall’arrivo degli immigrati di altra religione, ma soltanto dal suicidio causato della nostra stupidità.