Intervista a Daniele Francesconi
CulturalMente, una rubrica di Francesco Natale
Daniele Francesconi, direttore del Festivalfilosofia fa il suo esordio in libreria con “L’intruso” (Incontri Editrice), un giallo intrigante e coinvolgente.
Il suo romanzo “L’intruso” è un qualche modo riconducibile alla filosofia?
Nel romanzo ricorrono questioni che rinviano alla filosofi a, come il rapporto con l’altro, la libertà di scelta, il senso di giustizia, l’esperienza dell’angoscia di fronte a qualcosa che ci spiazza e ci terrorizza. C’è poi, più in generale, un livello della storia che riguarda la conoscenza della realtà e la sua affidabilità, dato che ciò che si racconta è un’esperienza assurda, apparentemente inverosimile. Tuttavia non ho scritto questo romanzo con l’intenzione di sostenere una teoria filosofica specifica e non ho nemmeno voluto costruire una storia che esemplificasse in modo strumentale, o comunque paradigmatico, dei concetti. Mi auguro che la trama regga in quanto tale. Insomma, spero di non aver scritto un romanzo “a tesi”, ma semmai “a temi”.
Il protagonista Serafino Malinverni è un giornalista. Perché per il personaggio principale della sua nuova opera ha scelto questo mestiere? È un espediente per parlare della spettacolarizzazione mediatica delle indagini di cui tanto si dice oggi?
Certamente mi interessava raccontare, in forme anche satiriche, gli eccessi di spettacolarizzazione che talora si registrano attorno a casi criminali particolarmente efferati, con il tanto di morbosità e di cinismo che accompagna queste coperture mediatiche molto “pelose”. Nell’economia della trama, questa parte di racconto è essenziale per dare un contesto alla vicenda di Serafino Malinverni. Tuttavia, anche in questo caso, c’è un senso ulteriore del perché il protagonista sia un giornalista, ossia un professionista il cui lavoro consiste nel verificare e raccontare i fatti. La vicenda che lo riguarda, infatti, sfugge al buon senso e rende praticamente impossibili i riscontri fattuali, oggettivi, cui Serafino mira nel suo lavoro. Ciò non fa altro che ulteriormente aggravare la destabilizzazione esistenziale generata dall’incontro con l’intruso.
Non c’è solo Serafino Malinverni, ma anche un intruso che appare e scompare. Nel mondo reale chi è considerato un intruso?
Benché Serafino Malinverni sia il protagonista, l’intruso ne è la controparte essenziale, e non a caso il romanzo prende da lui il suo titolo. E’ un fantasma in carne e ossa, una presenza che si dà nella vita del giornalista e che, semplicemente comparendo, la turba per sempre. In questo senso è una figura emblematica di ogni situazione che ci immette in una “zona disagio” (discomfort zone), per usare la felice espressione di Jonathan Franzen. Mentre in questo romanzo si tratta di una persona, potrebbe non essere sempre così: intrusi possono essere una malattia o un cambiamento drastico e non voluto delle condizioni di vita. Certamente non c’è alcuna intenzione di dire che intrusi siano gli stranieri.
Nel libro non chiama mai per nome la città di provincia in cui le vicende sono ambientate. Perché?
La città di provincia e di pianura, «lontana centinaia di chilometri da entrambi i mari», in cui sono ambientate le vicende del romanzo non viene mai chiamata per nome ma potrebbe forse essere facilmente riconoscibile. Il testo pullula di indizi in questo senso. Tuttavia è vero che, se anche qualcuno non la riconoscesse, quel che conta è l’atmosfera che si crea: ho ritenuto che una collocazione più precisa, realistica e direttamente individuabile, non sarebbe stata ottimale per una storia che gioca con il surreale, che va e viene tra realtà e assurdità tramite una piattaforma girevole narrativa. Mi interessava che la storia e le vicende che racconta mantenessero un alone indeterminato, in cui ciò che accade alla comunità che fa da scenario al romanzo potesse caricarsi di un significato che va al di là della cronaca o di un contesto specifico. Insomma, a volte non esplicitare rende le cose addirittura più precise, e la fantasia risulta più vera del vero.