Umanizzazione come elemento di cura
Etica della vita, una rubrica di Gabriele Semprebon
Se vogliamo seriamente umanizzare le cure, dobbiamo umanizzare, prima di tutto, la vita degli operatori sanitari. Una vita più umana degli operatori, nel senso personale ma anche professionale (tempi, modalità del lavoro, turni…), renderà più umana la relazione con il paziente e i famigliari, ovvero, renderà l’operatore sanitario capace pienamente di poter rispondere con empatia, rispetto e competenza al grido di aiuto, al di là del solo treatment. Assodato questo, anche gli operatori sanitari dovrebbero imparare alcune cose per realizzare il “prendersi cura”. Per esempio: rendere meno ossessiva la ricerca spasmodica di dover dominare la malattia… c’è anche il momento in cui si deve accogliere l’impotenza, cercando di qualificare il tempo di vita dell’ammalato non solo la quantità di vita. Fare in modo che l’obiettivo della cura non sia solo il “non far morire”, perché questo dispone spesso alla sproporzione, all’accanimento; sia anche il comfort, la qualificazione del tempo del paziente che gli resta da vivere. Non voler medicalizzare tutto, anche ciò che fa parte dell’esistenza (nascita, vecchiaia, morte).
Anche il cittadino, però, dovrebbe imparare a non “spompare” il sistema-salute, pretendendo che tutto debba essere risolto con una pastiglia o un intervento, un ricovero, nel più breve tempo possibile e il meglio possibile; in questo modo non si riesce a mettere l’uomo veramente ammalato al centro, ma, si erogano solo prestazioni per accontentare a volte anche dei capricci. Gandhi diceva: “La vita non è aspettare che passi la tempesta ma imparare a ballare sotto la pioggia”. Impariamo a vivere un’esistenza vera, che non può essere infinita o priva di dolore ma deve essere umana. Bisogna imparare a vivere “umanamente” anche quando il tempo non è dei migliori.