Festa di San Geminiano, omelia del vescovo Castellucci
Omelia pronunciata dall’arcivescovo Erio Castellucci nella solenne concelebrazione pontificale di San Geminiano, patrono principale della città di Modena e dell’arcidiocesi di Modena-Nonantola, tenutasi nella mattinata di mercoledì 31 gennaio, nel Duomo di Modena
Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata da monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola, in occasione della solenne concelebrazione pontificale di San Geminiano, patrono principale della città di Modena e dell’arcidiocesi di Modena-Nonantola, tenutasi mercoledì 31 gennaio, alle 11, presso il Duomo di Modena. La Messa è stata preceduta dalla benedizione alla città e all’arcidiocesi con la reliquia del braccio di San Geminiano e si è conclusa con l’Indulgenza Plenaria impartita dall’Arcivescovo.
+ Erio Castellucci
Saluto all’inizio della celebrazione
In questa Solennità, i modenesi si incontrano nella Domus clari Geminiani. Ringrazio e saluto tutti i fedeli presenti a questa celebrazione, i vescovi Mons. Morandi, Mons. Verucchi, e Mons. Pizzi, i vicari generali di Carpi e di Massa-Pontremoli, il Capitolo della Cattedrale e il suo Arciprete, i presbiteri, i diaconi, i seminaristi, i ministri, i consacrati e le consacrate, la Cappella Musicale del Duomo che accompagna la liturgia, i maestri e i musicisti, tutti i telespettatori che attraverso le reti locali TVqui e TRC sono a noi uniti dalle case e dai luoghi di cura e di riposo; in particolare gli amici non udenti presenti qui in Duomo e collegati dalla parrocchia di Gesù Redentore; ringrazio gli operatori della comunicazione, i volontari, chi presta il servizio d’ordine, l’Associazione Garden Club che cura l’addobbo floreale, i sagrestani, i volontari e gli impiegati per la pulizia della Cattedrale e la suppellettile. Saluto e ringrazio le associazioni e i movimenti, i Figuranti Estensi che donano a nome del Comune di Modena i ceri votivi, le candele e l’olio per la lampada, gli Ordini equestri, le Confraternite e i Decorati pontifici.
Un saluto e un ringraziamento particolare alla Signora Prefetto, al Sindaco di Modena, al Presidente della Provincia; ai rappresentanti dello Stato e della comunità civile; al Procuratore della Repubblica, al Presidente del Tribunale, ai Sindaci dei comuni di San Gimigniano e di Pontremoli, uniti a noi dal medesimo Patrono, e agli altri amministratori presenti; a tutte le istituzioni, del mondo politico e da quello scolastico e accademico, in particolare al Magnifico Rettore dell’Università; alle autorità militari, agli operatori del diritto e della giustizia, alle forze dell’ordine, di sicurezza e vigilanza, al Comandante dell’Accademia Militare, alla Signora Questore e ai Comandanti provinciali dei Carabinieri, della Finanza, dei Vigili del Fuoco e della Polizia locale, al Comandante della polizia penitenziaria, ai rappresentanti delle organizzazioni sociali, cooperative, culturali, sanitarie, commerciali, sindacali, imprenditoriali e sportive e alle fondazioni e organizzazioni bancarie. Per quanto questo elenco sembri lungo, non è completo, data anche la grande ricchezza e vitalità istituzionale, sociale, culturale e politica della nostra città.
Tutti si sentano benvenuti in questa casa, che non è solo la casa di San Geminiano, ma di tutti i modenesi, in questa Solennità che rappresenta l’occasione annuale più solenne per rafforzare la collaborazione tra tutte le istituzioni operanti per il bene comune, in un’alleanza che rafforza nei cittadini la fiducia e nelle autorità il senso del servizio.
Omelia
(Ez 3,16-21; Sal 88; 1 Cor 9,16-19.22-23; Mt 9,35-10,1)
È naturale che proviamo compassione verso le persone amate, quando attraversano momenti di dolore; la loro sofferenza è anche la nostra ed è come se la patissimo insieme: come se – appunto – la “com-patissimo”. Anche Gesù provò questo sentimento e si commosse alla tomba dell’amico Lazzaro, mettendosi a piangere, tanto che i presenti commentarono: “Vedi come lo amava!” (Gv 11,36). Quanto più sono affezionato a una persona, tanto più partecipo al suo stato d’animo; e quando vive un’esperienza bella, se la condivido si raddoppia la gioia; quando invece vive un’esperienza dolorosa, se la condivido si dimezza la sua fatica.
È naturale anche provare compassione verso persone che non conosciamo, ma vediamo soffrire ingiustamente. Ci succede spesso di questi tempi, bombardati come siamo da scene di violenza e di guerra, dove sono masse di persone innocenti e deboli a soccombere. Ci accade anche quando pensiamo a chi è gravemente malato o a chi subisce fame, povertà, lutto. Gesù ha provato anche questa compassione. Una volta, attraversando la cittadina di Nain, vicino al suo villaggio di Nazareth, si imbatté nel funerale di un ragazzino, figlio unico di madre vedova, e fu talmente commosso che gli ridonò la vita (cf. Lc 7,11-17).
Non è invece così frequente provare compassione verso “le folle”, verso la gente in generale. Per sentire nostro il dolore di quelli che amiamo, basta assecondare la natura; per fare nostro il dolore di quelli che non conosciamo, ma soffrono ingiustamente, è sufficiente una buona sensibilità. Ma per avvertire commozione verso le masse, è necessaria una passione speciale, la passione per il bene di tutti. Se è normale che pianga per la morte dell’amico Lazzaro o si commuova per la morte di un ragazzo, può stupire – ci informa il Vangelo di Luca – che Gesù pianga sulla città di Gerusalemme, vedendola da lontano (cf. Lc 19,41). Come si può piangere su un’intera città, nel suo complesso? E anche nel Vangelo di Matteo, appena proclamato, Gesù si lascia ferire il cuore dalla gente: “vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore”. La sua commozione non si limita a muovere i sentimenti, come spesso capita oggi, quando ci lasciamo trasportare da una situazione forte e poi, passata l’onda emotiva, quasi ce ne dimentichiamo. Invece la compassione che Gesù prova per le folle diventa operativa: manda i suoi discepoli a contrastare il male, dando loro potere di combattere i demòni, le malattie e ogni altro disagio. Quella di Gesù è una compassione attiva, progettuale, tutt’altro che remissiva e introversa.
Questa passione, quando è condivisa e diventa dunque “com-passione”, è l’anima di ogni impegno per il bene comune. Chi si dedica alla costruzione di qualsiasi comunità, civile o religiosa, sa che l’unica risorsa interiore capace di far fronte alle difficoltà è proprio questa passione. Non basta la competenza, per quanto indispensabile; non bastano neppure le doti organizzative, per quanto utili; né tantomeno è sufficiente l’incentivo economico, sebbene non se ne possa fare a meno. No: quello che occorre prima e più di tutto è l’amore per la gente, per la città, per la comunità. Sentire come proprie le sofferenze di tutti, specialmente di quelli che papa Francesco chiama “gli scartati”. Non importa se in questo modo si disturbano interessi di parte o si vanno a toccare privilegi e vantaggi di singoli o di gruppi: importa che chi si dedica al bene comune resti saldo nella passione per la folla stanca e sfinita. Questa occasione annuale raduna attorno all’altare e al Patrono i rappresentanti delle istituzioni e degli enti che hanno la responsabilità di guidare la società civile e religiosa. Siamo qui per rinvigorire la nostra passione per la comunità, in modo che sia davvero “com-passione”, rivolta non agli interessi privati ma al bene comune.
Il nemico numero uno della passione per la comunità, il suo contrario, è l’egoismo. Quando pongo il baricentro su me stesso, come singolo o gruppo, ed escludo dal mio raggio visivo tutto ciò che non mi conviene, creo una frattura nel corpo sociale. Cinque secoli fa, Francesco Guicciardini tentò di nobilitare quello che definiva “il particulare” (cf. Ricordi, 28), cioè la ricerca del proprio interesse, da lui ritenuto un modo saggio e realistico per il singolo di agire a vantaggio di se stesso, favorendo così indirettamente anche lo Stato. In realtà questo “particulare”, al di là delle intenzioni di Guicciardini, si è dimostrato nei fatti un individualismo esasperato, incanalatosi anche in strutture politiche ed economiche spregiudicate, tali da innalzare una piccola fetta dell’umanità a padrona del mondo e lasciare nella miseria intere popolazioni.
L’egoismo oggi dilaga, rivestendo anche la forma di un’aggressività sociale crescente. Non preoccupa la diversità delle opinioni, che è anzi una ricchezza; preoccupa l’incapacità di confrontarle con garbo. È diventato difficile dialogare: si preferisce insultare; sta scomparendo la pazienza di argomentare: ci si esprime quasi sempre a slogan; è ormai rara la cura di documentarsi: molto più semplice cavalcare i luoghi comuni. Oggi anche gli aggettivi più nobili della tradizione cristiana, come “buono”, “caritatevole” o “compassionevole”, e perfino aggettivi della tradizione laica, come “umanitario” o “solidale”, vengono derisi e disprezzati, arrivando a colpevolizzare i poveri e coloro che cercano di farsi loro prossimi. È un segnale da tenere d’occhio, perché i sistemi repressivi prendono sempre avvio dall’intolleranza verso le parole oneste, che presto scivola nella violenza verso le persone oneste.
La reazione più efficace, da parte di chi si prende a cuore il bene comune, è quello che papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti chiama “amore politico” (cf. nn. 180-182), citando papa Pio XI, che nel 1927 – in pieno regime fascista – invitava i giovani universitari cattolici ad impegnarsi per il bene comune, dicendo che essi devono imparare “a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene che è la suprema legge a cui devono essere rivolte le attività sociali”. E concludeva, affermando che questo “è il campo della più vasta carità, della carità politica” (Oss. Rom. 23 dicembre 1927, p. 3). Amore e politica, dunque non sono antitetici, ma alleati: e quando si separano, vincono gli egoismi: l’amore senza politica scade in una bolla emotiva e la politica senza amore finisce in una fredda strategia.
Grazie a Dio, non mancano certo nel tessuto delle nostre comunità civili e religiose le persone impegnate a fondo, quasi sempre silenziosamente, nella costruzione della casa comune. Sono singoli, famiglie, gruppi, associazioni, organizzazioni, enti e istituzioni, che provano “com-passione” per gli altri e, anziché trattarli da avversari e nemici, anche quando non ne condividono idee e azioni, li trattano da fratelli e sorelle. Dentro alle vene delle nostre città scorre in gran parte il sangue buono del dono di sé; e se talvolta abbiamo l’impressione che il sangue avvelenato prevalga – e giustamente lo denunciamo – è perché, nonostante tutto, continuiamo a percepire l’egoismo come eccezione e l’amore come norma. San Geminiano, impegnato a fondo nella Città di Modena, e nello stesso tempo mosso a compassione dalle necessità dell’Impero, ci aiuti a fuggire il ripiegamento nel “particulare” e ci doni la “compassione” di Gesù, che è l’anima del servizio al bene comune.