L’attrice Betty Pedrazzi nella sua Carpi: il racconto di una vita
"Sinceramente per me è molto importante recitare qui, soprattutto perché siamo al Teatro comunale ed è la prima volta"
Intervistare Betty Pedrazzi, attrice di fama internazionale, nella sua città natale, Carpi, è sicuramente un’emozione. Più che un’intervista, quella con lei è stata una piacevole, bella e lunga chiacchierata dinanzi ad una spremuta d’arancio, con alle spalle la piazza (“E’ sempre così bella questa piazza) e la Cattedrale. Un’artista eclettica, colta, che ha calcato i palcoscenici di tutto il mondo e che ora, con sua autentica gioia, è nella Carpi per recitare in Teatro comunale: dDopo essere stata ospite d’onore del Lions Club Alberto Pio, giovedì sera, dove ha raccontato la sua storia ed è stata insignita del massimo riconoscimento, il Melvin Jones, è, infatti, tra i protagonisti del “Tartufo” di Molière diretto da Jean Bellorini, co-prodotto da Teatro di Napoli e Teatro Nazionale Popolare di Villeurbanne (Francia), che va in scema stasera alle 21 e domani in replica alle 16, nel ruolo di Madame Pernelle.
Betty, eccola nella sua Carpi: cosa significa essere qui a presentare uno spettacolo?
Sinceramente per me è molto importante, soprattutto perché siamo al Teatro comunale. Ho recitato per 18 anni con la compagnia di Tony Servillo, che è uno degli attori più importanti italiani, abbiamo girato tutto il mondo, da New York a Mosca, San Pietroburgo, e anche l’Italia e pure in realtà limitrofe, come Correggio, Modena, ma non siamo mai venuti a Carpi. Per questo sono particolarmente felice, anche perché a Carpi, insieme al mio allora marito, nella metà degli anni Ottanta, ho aperto e gestito il Teatro “Nuovo Eden” che al tempo ha registrato molto successo, specie con l’avvento dei nuovi comici che si affacciavano al palcoscenico. Sinceramente, da attrice, non essere mai venuta a recitare nel teatro istituzionale di Carpi un po’ mi addolorava. Devo ringraziare il direttore artistico Carlo Guaitoli per questa nostra presenza, una persona stupenda.
Che “Tartufo” metterete in scena?
Diverso da come il pubblico tradizionalmente si aspetta. Lo abbiamo già presentato in Francia, è una coproduzione italo-francese, il regista è Jean Bellorini, già molto consolidato in Francia. Il ‘Tartufo’ di Moliere è lo spettacolo più conosciuto in Francia, è come per noi un Goldoni o un Pirandello, è proprio il teatro ufficiale francese che tutti conoscono. Per questo era una sfida grossa portalo qui, in italiano, in versi Alessandrini (versi francesi di dodici sillabe) a rime baciate, tradotti da Carlo Repetti.
Tornando al suo rapporto con Carpi, prima ha citato il cinema teatro “Nuovo Eden”: che anni sono stati quelli per lei?
Era circa la metà degli anni Ottanta: sono stato anni bellissimi, soprattutto per me che avendo fino a quel momento solo l’attrice, ho potuto vivere questa esperienza diversa di gestione di un teatro e quindi di produzione. Siamo venuti a Carpi, abbiamo individuato il cinema che era parrocchiale e destinato alle proiezioni di film d’essai: era lo spazio adatto a fare rappresentazioni teatrali. Abbiamo messo a posto il palcoscenico, rifatto la graticcia e siamo partiti con cinque sponsor di Carpi e con il patrocinio del comune. E’ andato benissimo: abbiamo iniziato con i comici, era il 1983/1984, ancora non c’era a teatro questa ondata di comici che poi invece ha preso piede prese. Poiché eravamo dell’ambiente, conoscevamo un po’ tutti essendo dell’ambiente. Comici, ma anche commedie brillanti con Valera Valeri e Paolo Ferrari, coppie che facevano i primi contemporanei. E’ stato un successo enorme che è durato nove anni, fino a quando io poi mi sono separata e di conseguenza sono tornata a Roma.
Un’esperienza carpigiana che porta nel cuore…
Decisamente! È stata un’esperienza bella perché per un attore vedere come si ci deve muovere a livello tecnico mi ha insegnato tanto! Ad esempio, quando non trovavamo i tecnici perché impegnati a Modena o al comunale di Carpi, io stessa andavo sul graticcio a 10 metri di altezza perché mio marito soffriva di vertigini. Impari anche a vedere le cose da un’altra prospettiva, da un’altra ottica, anche il pubblico stesso, perché quando fai l’attore pensi veramente pensi di essere il centro del mondo, ti illudi che la gente sia lì a bocca aperta a pendere dalle tue labbra… Invece se vedi lo spettacolo da un altro punto di vista, riesci poi anche a riequilibrare il rapporto pubblico/palcoscenico e a vederlo con una luce più realistica e quindi anche più produttiva e questo ti consente di lavorare meglio.
Questo le è servito anche nel suo lavoro?
Assolutamente sì! Mi ha consentito, soprattutto, di instaurare un rapporto più empatico con il pubblico. Questo, devo ammetterlo, l’ho anche imparato molto con Tony Servillo: lui prevede sempre una pedana che va sopra la buca dell’orchestra, ossia va oltre il proscenio, quindi entra “in bocca” al pubblico, perché è importante che gli spettatori siano con te e non lontano da te a guardarti. Quello lo fa il cinema; il teatro deve coinvolgere, tu spettatore devi essere “dentro”, devi essere con me.
Parlando di cinema, lei ha recitato nel film di Paolo Sorrentino “È stata la mano di Dio”, candidato agli premi Oscar 2022 come miglior film straniero, dopo aver vinto Il Leone d’Argento a Venezia e la nomination ai Golden Globe…
Io interpreto l’anziana baronessa Focale che svolge un atto di “iniziazione” del giovane protagonista Fabietto. Ammetto che è stato un ruolo complicato: prima di tutto per l’età perché dovevo appunto “iniziare” un ragazzino (che poi rappresenta Paolo quando era giovane) di 17 anni: l’attore aveva 19 anni, mentre io ne avevo 66 anni, quindi era c’era un certo imbarazzo. Ero molto spaventata, inizialmente ho detto a Paolo Sorrentino che non ero certa di farcela, poi lui mi ha convinta, sottolineando che si trattava di un ruolo poetico e c’era nulla di sgradevole. Anzi era un atto d’amore verso questo ragazzino. Devo dire che il mio ruolo è stato molto apprezzato, soprattutto gli americani mi hanno scritto delle recensioni meravigliose.
Nel film c’è una frase divenuta famosa: “Non ti disunire”: cosa significa per lei?
E’ la frase che Antonio Capuano, autore e regista, nel film dice al 20enne Paolo Sorrentino che ha deciso di andare a Roma al centro sperimentale a fare cinema. “Non ti disunire”, ossia restare in contatto con se stessi, tenere unito tutto quello che si è appreso anche il dolore. Mi ritrovo moltissimo in questa frase: io non mi sono disunita. Mi definisco, infatti, un’attrice anomala non amo le pubbliche relazioni, le feste, mi piace recitare e stare sul palcoscenico.