Il Papa restituisce al mondo la figura di Blaise Pascal gigante di scienza e di fede
In Punta di Spillo, una rubrica di Bruno Fasani
Tutto quello che ricordavo di Blaise Pascal era che aveva scritto i Pensieri (le famose Pensées). Poi ricordavo che aveva parlato di esprit de finesse, lo spirito di finezza, senza sapere esattamente cosa avesse inteso con quell’espressione. Confessata la mia ignoranza, mi sono chiesto perché la Chiesa non abbia insistito nel far conoscere questa figura e la sua modernità per conciliare la complessità del pensiero contemporaneo. Scrive Papa Francesco: «Qual è effettivamente, ai tempi di Pascal come ai nostri giorni, il tema che più ci interessa? È quello del senso integrale del nostro destino, della nostra vita e della nostra speranza, protesa a una felicità che non è proibito concepire eterna». Ed è stato proprio Papa Francesco a togliere dal cono d’ombra questo genio dell’umanità. Lo ha fatto nei giorni scorsi, con una Lettera Apostolica, Sublimitas et miseria hominis, Sublimità e miseria dell’uomo, pubblicata in occasione del IV centenario della nascita di Pascal.
I bene informati ci ricordano che Eugenio Scalfari, il fondatore de La Repubblica, nel 2012 invitava la Chiesa a dire qualcosa di attuale verso la modernità, proponendo gli altari per Pascal. Poi però concludeva sconsolato: «Non lo faranno mai». Nell’incontro che ebbe successivamente col Papa ritornò sull’argomento, per sentirsi rispondere queste precise parole: «Penso anch’io che meriti di essere beatificato». Personalmente non mi cambia molto il fatto che non lo si proclami beato, così come mi piacerebbe che si rallentasse la corsa all’altare da parte di varie congregazioni e realtà diocesane, pur di avere il proprio santo o la propria santa. Mi basta la certezza morale di saperlo tra i santi, per invocarlo e per cercare di capire quanto del suo esempio può aiutare anche noi oggi a fare un po’ di strada.
Ma chi fu Pascal? Un genio e un gigante della fede. Era nato nel giugno del 1643 a Clermont-Ferrand, nella Francia centrale. Fin da ragazzo rivelò la sua genialità in ambito matematico, lo “spirito della geometria” come lo chiamava. A 12 anni si esercitava su Euclide, a 16 forniva dimostrazioni su teoremi di geometria proiettiva. Sua la scoperta dell’unità di misura, che porta il suo nome. Sua anche l’invenzione della pascalina, fatta a 19 anni, considerata la prima calcolatrice della storia. Oggi parleremmo di una cultura scientifica sconfinata come chiave di conoscenza del mondo. Ma Pascal intuì che la verità non si comprende totalmente e solamente con l’analisi della ragione (chissà se Margherita Hack e i suoi proseliti avranno mai letto i suoi scritti). Accanto alla ragione e alla sua capacità di analisi, c’era bisogno dell’esprit de finesse, una parte profonda della persona dove la ragione non sempre riesce ad orientarsi. Ed era da lì, secondo Pascal che fiorivano la fede, la speranza e la carità. Ed era nello spazio misterioso dello spirito di finezza che operava la Grazia.
Nella fodera di un giubbetto, che lui indossava sempre, dopo la morte furono trovati due scritti, uno su carta e uno su pergamena. Parlavano della stessa cosa, ossia di un incontro mistico avvenuto nella notte del 23 novembre 1654 con il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Non il Dio dei filosofi o dei teologi, ma delle persone, nel cui cuore Dio è presente ed operante. Morirà nove anni dopo, con un solo obiettivo, vivere l’amore. Perché «l’unico oggetto della Scrittura è la carità». Parole sue.