Canada, Esodo di fuoco
Masi cho! Una rubrica di don Luca Baraldi
Il cellulare squilla prolungatamene in maniera diversa dal solito, sembra aver fretta di dire qualcosa. Poi, anziché una voce, un testo direttamente dalle autorità dei Territori del Nord-ovest: ordine di evacuazione immediata per coloro che si trovano nella seguente area…
È così che comincia l’esperienza di chi, a causa degli incendi che stanno toccando molte aree di questo enorme pezzo di Canada, è costretto a lasciare tutto e trasferirsi o presso parenti e amici o in strutture predisposte, generalmente a Yellowknife, la capitale di questa regione.
È accaduto a inizio giugno: tutta la popolazione di Hay River, 650 km a sud di qui, dall’altra parte del Great Slave Lake, ha dovuto lasciare ogni cosa, nella speranza che il fuoco non distruggesse ogni cosa, come invece ha fatto nella riserva di Kʼatlodeeche. È avvenuto a Tulita, nella Sahtu region due settimane fa. Sta avvenendo ora a Bechoko, centro principale della Tlicho region ad appena 100 km da qui, a causa di un incendio che ha anche tagliato le comunicazioni stradali fra Yellowknife ed il resto del mondo (l’unica strada che arriva qui passa proprio da quella comunità).
Tutto ciò impressiona non solo per il pensiero della gente, per lo più nativi, che rischiano di perdere tutto ciò per cui hanno investito energie e sforzi, ma anche per l’esodo tangibile che questi fenomeni climatici implicano e per le ricadute sociali che generano.
I cosiddetti wild fire sono incendi naturali dovuti all’eccessivo clima secco ed alle temperature più alte della media. Il sito dei Northwest Territories ad oggi informa che attualmente sono attivi 128 fuochi, che impattano una superficie di 1.222.770 ettari (ovvero l’equivalente delle provincie dell’Emilia).
Lo spostamento forzato e repentino di interi paesi o villaggi, poi, fa sì che se da un lato, terminato l’allarme, molti fanno rientro nelle loro case, dall’altro le fasce più fragili della popolazione, in particolare coloro che vivono senza un lavoro ed una abitazione vera e propria, si stabiliscano a Yellowknife, dove sono presenti alcuni rifugi per i tanti senzatetto che vivono in città, rendendo smaccatamente tangibile il livello di degrado e povertà in cui queste persone si trovano.
Un’amica che lavora come infermiera presso queste strutture poche settimane fa mi diceva che il numero di coloro vivono senza fissa dimora e con i quali ha a che fare è aumentato del 30 per cento circa, con un conseguente aggravarsi di situazioni di tensione dovute anche, in molti casi, all’abuso di alcool e sostanze molto diffuso.
Dal mio punto di vista il micro-fenomeno che sto toccando con mano in queste settimane estive quassù è come una sorta di modello in miniatura di quanto accade in aree ancora più grandi di mondo in via di sviluppo dove i cosiddetti migranti climatici si moltiplicano di anno in anno.
E di fronte a ciò mi chiedo quale tipo di approccio concreto ci chieda di assumere la fede in Gesù Cristo – il Verbo per mezzo del quale ogni cosa esiste, che ha assunto la condizione umana portandola alla sua pienezza nella pasqua di morte e risurrezione e che tornerà nella gloria per inaugurare cieli nuovi e terra nuova.
Certo da un lato ho sperimentato in prima persona come l’affabilità nell’accogliere chi si trova in situazioni di disagio, come quelle citate, sia utile a ciascuno.
Ad esempio, nel periodo dell’evacuazione di Hay River è stato bello vedere come persone di là si siano unite a persone di questa città per animare insieme la liturgia. Così come è stato edificante vedere la comunità filippina di qui organizzare un pomeriggio di festa, con piatti tipici della loro tradizione, per quella evacuata.
Ma forse serve una presa di coscienza più radicale, articolata ed a lungo termine per ricollocarsi in questo mondo che cambia così rapidamente e che corre pure il rischio di suscitare solo stati d’animo di agitazione, paura ed ansietà, la grande nemica del fiducioso ed intelligente affidamento a Dio.
Senza azzardare profezie o soluzioni, che non credo di avere, mi pare che la realtà in cui la Chiesa oggi è immersa, di cui è parte, e che è pure motivo per lei di sfida in positivo, ci spinga, per dirlo con le parole del vescovo di Torino, a ritornare a “quello che conta davvero”, ossia, “che l’Atteso è Cristo e soltanto Lui; e che tutto quello che facciamo e scegliamo serve se ci aiuta a rimanere nell’attesa della Sua venuta, se ci è di sostegno a vivere nella speranza ardente che Egli venga e che verrà presto” (Quello che conta davvero. Lettera pastorale di mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, sul futuro delle Chiese di Torino e Susa).
Credo, in fondo, che come discepoli di Cristo, il tempo che viviamo ci richieda di elaborare una spiritualità dell’attesa più forte; delle reti dell’accoglienza più robuste; più che dei presidi del territorio delle coscienze più umane e più evangeliche che siano lievito di speranza anche senza canoniche, campanili o oratori. Ed infine, col profeta Elia, degli occhi a scrutare l’orizzonte in attesa di quella nuvoletta, piccola come un pugno, dalla quale scroscerà acqua che rigenera la faccia della terra.