Sopravvissuti… se risorti
In vista della Settimana Santa, alcune riflessioni dai Territori del Nord-ovest del Canada
Qualche giorno fa, dopo la visita di alcuni giorni ad una delle missioni della Sahtu region, sono volato a Yellowknife, dove avrei dovuto trascorrere alcuni giorni per il ritiro degli operatori pastorali della diocesi e per prendere un po’ di fiato in un contesto un pò più semplice di quello del mio estremo nord.
Non ho fatto in tempo a mettere i piedi giù dalla scaletta dell’aereo che una telefonata mi dice che l’indomani in un’altra delle comunità di lassù era in programma un funerale, per cui sarei dovuto andare. Così la mia permanenza nella città è durata due ore. Sono ripartito facendomi un totale di circa 2500 chilometri di viaggio e giungendo all’imprevista destinazione. Se questo non bastasse il giorno dopo il funerale, quando sarei dovuto tornare nella capitale dei Territori del Nord-ovest, un’improvvisa nevicata ha fatto sospendere il mio volo, costringendomi ad una ulteriore riprogrammazione dei miei giorni… Con ciò, senza troppi riferimenti fantozziani, vorrei dire che la vita nel grande nord può essere piuttosto destabilizzante. In un momento situazioni meteorologiche inattese ed avverse; richieste considerate improrogabili dalle persone, che poi spesso si rivelano farraginoso e prive di reale consistenza; problemi tecnici nei trasporti…vanificano progetti, programmazioni ed aspettative.
Spesso capita di trovarsi, non senza un certo spaiamento, in luoghi e contesti ben diversi da quelli che si erano immaginati per quel determinato presente. Come è facile intuire, il senso di impotenza e irrilevanza così cresce in maniera direttamente proporzionale ai disagi da affrontare, portando molti di coloro che vivono qui a parlare di sé come di “sopravvissuti” (survivors). Mi sono chiesto molte volte: ma cosa significa profondamente questa qualifi ca? Come comprenderla nella luce della Pasqua di Cristo? Non è che, in fondo, anche nel mondo da cui provengo questo attributo è più in voga di quanto non pensi? Per approfondire credo sia importante soffermarsi un poco sull’esperienza di Gesù in quei giorni concitati e di sentimenti alterni che hanno segnato la nascita del nostro cammino di fede quali discepoli del Maestro crocifisso-risorto, seppur duemila anni dopo quei fatti.
In special modo, rileggendo il resoconto della passione nel Vangelo secondo Giovanni, mi colpisce quello che il cardinal Martini chiamava “il coraggio della Passione”. Nel racconto, infatti, viene sottolineato, come in un crescendo, l’atteggiamento libero e cosciente di Gesù che, a fronte dell’aumentare del peso specifico (di drammaticità relazionale, psicologica, teologica) degli eventi che paiono travolgerlo, contrappone una adesione sempre più profonda ed affettuosa alla logica trascendente e altra dal mondo del Padre suo. Quello di Gesù nella Pasqua, allora, si mostra non come un imporre il bene sul male ma, come poi dirà san Paolo, spronando i cristiani di Roma, quale atteggiamento di affidamento sempre più radicale all’unico Bene che ha già vinto sul male che ci coinvolge nella sua dinamica. Con questo mi pare che si possa dire che è un “sopravvissuto” solamente chi si nutrie radicalmente di questa logica, che poi è quella del realizzarsi già ora del Regno di Dio nella nostra carne, seppur non ancora pienamente.
A volte, truccando un po’ le carte sul tavolo della partita della nostra vita, sia a livello personale che a livello ecclesiale, siamo caduti nella tentazione o ancora corriamo il rischio di pensarci sopravvissuti o di pianificare strategie di sopravvivenza imponendo con prepotenza (più o meno mal celata) al male che percepiamo in tutta la sua pe-ricolosità, specialmente in situazioni dolorose, di crisi, di smarrimento o addirittura di peccato, un bene che, per quanto di valore, è il “mio bene”, mostrando di non credere troppo che un altro Bene abbia già cambiato l’esito del gioco portandolo a nostro vantaggio.
In una intervista di qualche anno fa il vescovo di Hildeseim, in Germania, affermava che “con il saccheggio di Roma da parte dei visigoti con Alarico nel V secolo […] la teologia paleocristiana è entrata in una crisi di significato: come ha potuto Dio permettere che il centro della cristianità fosse funestato e devastato da barbari pagani? 1.300 anni più tardi, nell’età dell’illuminismo, dopo il devastante terremoto di Lisbona del 1755, è diventato più acuto il problema della “Teodicea” riguardante l’interrogativo del potere onnipotente di Dio e della sofferenza umana. E io credo che la Chiesa oggi si trovi in una situazione simile e persino più drammatica, poiché il male è derivato da lei stessa.” (www.settimananews.it/chiesa/mons-wilmer-labuso-potere-nel-dna-della-chiesa/) Con questa analisi monsignor Heiner Wilmer rispondeva ad alcune domande circa la sua visione della Chiesa dopo lo scoppio dello scandalo degli abusi e riflettendo in modo particolare sul tema dell’abuso di potere (che egli riconosce come parte costitutiva del Dna ecclesiale).
Alla luce di quello che sperimento nei contesti un po’ estremi a cui facevo riferimento poco fa, ma che, con le dovute proporzioni, non sono poi troppo diversi da situazioni che si producono nelle parrocchie e nei gruppi della nostra Diocesi, mi pare ci si possa domandare se anche noi non ci autoidentifichiamo come dei “sopravvissuti” che, per non lasciarsi schiacciare dagli eventi impongono logiche mondane nell’orientare e ordinare il vissuto ecclesiale. Logiche che inevitabilmente sfociano in prepotenze, atteggiamenti stupidamente puerili, abusi verso chi è più fragile, e che con ciò riducono le nostre esistenze e quella del corpo di Cristo a quelle di zombies.
Dal mio punto di vista, che pure è parziale e discutibile, stiamo vivendo un tempo drammatico ed unico, carico di violenze ingiustifi cabili e prospettive di autentica ri-umanizzazione. Ecco perché il celebrare le liturgie della settimana santa che, ancora una volta, ci riportano al dove ed al come tutto ciò che siamo è nato, è un dono bello e grande. Esse ci offrono di lasciare che la “mutazione genetica” accaduta attraverso pasqua che Gesù ha abbracciato a favore di tutta l’umanità e del cosmo, sia la forza propulsiva del nostro vivere, la nostra identità che possiamo tramandare.
Lì, mentre celebreremo insieme, il nostro Dna sarà ricondotto alla sua autenticità. Lì il nostro essere dei “sopravvissuti” avrà la bellezza del corpo del Risorto, che ama con tutti i sensi fino alla fine e che custodisce i segni -memoria attiva- della passione per noi suoi amici. Lì lasciandoci commuovere dal bene che ha vinto il male, potremo trovare coraggio per smetterla con le prepotenze da sagrestia o da sagra perché saremo investiti da quella libertà che è l’unico cibo che nutre la comunione di fratelli e sorelle. Lì anche le nevicate che sommergono i villaggi bloccando ogni relazione, i sogni confusi ed un po’ inconcludenti che spazientiscono i nostri pragmatismi, le delusioni che ci portano a giocare sempre più la nostra partita personale con la logica del “catenaccio” diventano rugiada del mattino di Pasqua, segno di pace e benedizione.
Don Luca Baraldi