Cos’è l’anima?
Terza e ultima parte della lezione tenuta al Convegno Mondiale Copernicano sul tema “Teologia, libertà, fondamentalismi”.
di Mons. Gildo Manicardi
Due casi di alleggerimento dogmatico e possibili nuove prospettive
b. L’anima
Riflessioni in parte simili a quelle sulla coscienza possono essere sviluppate a proposito dell’anima. Il Catechismo della Chiesa Cattolica – una vera e propria enciclopedia della fede cattolica aggiornata a molte impostazioni del Concilio Vaticano II – parla dell’anima soprattutto sotto il titolo «Unità di anima e di corpo» – «Corpore et anima unus» (cf. §§ 362-368). La trattazione parte dal tema dell’unità: «La persona umana, creata a immagine di Dio, è un essere insieme corporeo e spirituale» (§ 362); ma subito dopo, però, sembra emergere la preoccupazione di distinguere due principi: «Spesso, nella Sacra Scrittura, il termine anima indica la vita umana, oppure tutta la persona umana. Ma designa anche tutto ciò che nell’uomo vi è di più intimo e di maggior valore, ciò per cui più particolarmente egli è immagine di Dio: “anima” significa il principio spirituale nell’uomo» (§ 363). Si insiste nel dire che il corpo dell’uomo «partecipa alla dignità di “immagine di Dio”: che il corpo è corpo umano proprio perché è animato dall’anima spirituale, ed è la persona umana tutta intera ad essere destinata a diventare, nel corpo di Cristo, il tempio dello Spirito» (§ 364).
Inoltre: «L’unità dell’anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l’anima come la “forma” del corpo; ciò significa che grazie all’anima spirituale il corpo, composto di materia, è un corpo umano e vivente; lo spirito e la materia, nell’uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un’unica natura» (§ 365). Di fronte all’insieme di queste affermazioni, però, si ha la sensazione che non si superi una certa giustapposizione, nobile e fortissimamente voluta da Dio, ma non del tutto capace di assorbire la dualità della combinazione di due principi eterogenei. Un testo sembra proprio “tradire” questa dualità: «La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – non è “prodotta” dai genitori – ed è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte, e di nuovo si unirà al corpo al momento della risurrezione finale » (§ 366).
L’uomo terreno è un essere unitario, ma la sua anima è separabile dal suo corpo: ha una diversa origine e un differente cammino verso la salvezza. Parrebbe dunque intravedersi una specie di crepa non saldabile, una “separabilità” che solo il Creatore può ricuperare nel cielo futuro. La piena unità dell’uomo, in questa visione, sarebbe di fatto possibile solo nel paradiso escatologico e non sulla terra. A noi pare che il messaggio biblico suggerisca una visione sostanzialmente più unitaria dell’uomo: non è necessario infatti intendere l’anima come un organo specifico creato da Dio per inserirlo nelle persone umane, a differenza degli altri animali che – a dispetto del loro nome – non possederebbero proprio “l’anima”.
La Pontificia Commissione Biblica ha prodotto un articolato documento (30 settembre 2019) che sembra suggerire la necessità di andare oltre. Il testo si articola consapevolmente sulla stessa immagine biblica usata anche come punto d’avvio nel CCC, quando sostiene: «Il racconto biblico esprime questa realtà con un linguaggio simbolico, quando dice: “Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffi ò nelle sue narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente” (Gn 2,7). L’uomo tutto intero è quindi voluto da Dio» (§ 362). Il linguaggio dei teologi della Commissione biblica è però molto più sfumato: «In Gen 2 … Dio è il soggetto di due gesti creativi nei confronti di ’ādām: il “plasmare” (v. 7a) e il “soffiare” (v. 7b). … Il secondo motivo (ossia quello del “soffiare”), che suggerisce quale sia la specifica qualità della creatura umana, ha ricevuto nella filosofia uno sviluppo speculativo mediante il concetto di anima e di spirito; oggi, con i progressi delle neuroscienze, alcuni rischiano di ridurre la persona a un semplice organismo funzionale, spiegato in termini di chimica e biologia. La tradizione biblica ha un messaggio importante da comunicare, sia per quanto riguarda l’umana finitudine, sia per quanto concerne il valore spirituale dell’uomo; è necessario al proposito tenere comunque sempre presente il riferimento al Creatore, perché senza questa relazione originaria non è possibile rendere conto del mistero della creatura umana».
Arriviamo così a una conclusione simile a quanto visto per la coscienza. Parlando di anima – proprio come quando si parla di coscienza – non ci si riferisce a delle realtà autonome e individuabili o a delle partecipazioni specifiche alla natura di Dio. L’alito divino insufflato nell’uomo non dà origine a un organo e non propone di immaginare una scintilla di divino piantata a riqualificare il corpo umano. Pare che il messaggio essenziale sia quello che l’uomo è creato per vivere di una relazione del tutto singolare a Dio, che lo rende trasparente alla vita e alla conoscenza anche di Dio. Con coscienza e con anima si annuncia una relazione e non degli “organi metafisici”.
Accettando posizioni di questo tipo la ricerca teologica riacquista originalità e libertà di azione e trova una sua corretta posizione a fronte al cammino delle neuroscienze. Non ci sono organi o stipetti da proteggere allo sguardo sospettoso degli scienziati. È la relazione che Dio ha posto e pone con l’uomo a creare la nostra specificità. Le intelligenze artificiali non possono in nessun modo essere coscienti (non possono sperimentare il senso dei dati che ricevono) e non riescono a tradurre i simboli in sensazioni ed emozioni. Non possiamo immaginare che alla fine gli scienziati diventino capaci di costruire una “scatola nera” da inserire nelle macchine A.I. per produrre consapevolezza, sensazioni o coscienza. L’uomo rispetto alle macchine e, per altri versi, agli animali non è un essere con dei “marchingegni in più”, delle strutture spirituali create direttamente da Dio, come alcuni immaginano la coscienza e l’anima. La diversità, l’irriducibilità dell’uomo è il suo essere amato da Dio. È in forza di questo amore che egli è coscienza e anima. L’uomo non possiede un “componente immortale” inserito nel suo corpo terreno, ma è immortale per l’amore con il quale Dio lo custodisce e non lo lascerà mai.
La nostra responsabilità, stupenda e terribile, è questa: la realtà e la qualità assunte dalla nostra coscienza e dalla nostra anima sono legate alla nostra autoformazione, al lavoro che siamo capaci di compiere su noi stessi. Non possiamo avanzare scuse. Dipende da noi che “anima” riusciamo a darci e che “coscienza” maturiamo. Anima e coscienza non sono un retaggio divino immutabile, ma sono il frutto del nostro impegno sull’amore di Dio, che ci circonda anche personalmente. L’uomo è veramente capace di creare il suo destino che sarà manifestato solo «quando il Figlio dell’uomo verrà nella gloria» e si manifesterà chi siamo veramente (cf. Mt 25,31-46) alla luce dell’amore divino e alla presenza di Gesù nel prossimo bisognoso.
c. Un accresciuto spazio di libertà e il nuovo ruolo della teologia
In questo accresciuto spazio di libertà teologica i passi avanti dell’esegesi cattolica stanno permettendo di affrontare in maniera nuova aspetti e parti della dottrina sistematica che, benché creduti da tanti e per tanto tempo nella tradizione delle Chiese, presentavano qualche problema e vedevano alcuni molto incerti in proposito. Il ruolo della teologia accanto al magistero e nello sviluppo della tradizione è un tema ancora sensibile. Ci sono, però, diversi autori, un po’ in tutto il mondo, capaci di portare avanti una riflessione che studia anche punti di confine o punti limite della dottrina cattolica. Una lettura più precisa e attenta della Scrittura, spesso in grado di destrutturare sintesi precedenti un po’ troppo semplificate, si rivela molto utile.
Per non eccedere nell’ottimismo ricordiamo anche un pericolo. Di fatto, non poco della cultura religiosa diffusa rischia di poggiare su affermazioni semplificate e antiquate, non prive di un’imbarazzante dose di fondamentalismo. Al tradizionale appello al magistero a vigilare sulla dottrina perché non si corrompa, oggi va aggiunto un sostegno non meno coraggioso ai teologi perché lavorino, accanto al magistero, allo sviluppo della tradizione perché diventi più trasparente al nucleo vivo della Parola di Dio e ai problemi e alla sensibilità della cultura presente.