La crudeltà di un regime e la forza straripante di giovani rivoluzionari
In Punta di Spillo, la rubrica di Bruno Fasani.
È una voce gentile e inconfondibile quella che mi raggiunge al telefono nei giorni scorsi. È quella di un amico iraniano, che molti veronesi hanno conosciuto come guida turistica durante i viaggi in quella terra bellissima che è l’Iran. Ci incontriamo presso una comunità religiosa, poco fuori Verona. Mi dice che è scappato dal suo Paese, ma solo perché non aveva più lavoro. A tempo perso si era messo a riparare tappeti, ma anche con quello non riusciva più a vivere. Per forza di cose si era rassegnato a partire. Sia pure senza barconi di approdo, l’Italia è diventata così l’unica speranza. Mi dice che sta girando per i supermercati, in cerca di un lavoro qualsiasi, anche il più umile. Ma l’anagrafe non gli va in soccorso. A sessant’anni, dopo una vita nella cultura, non è facile trovare le porte aperte. Mi dice che quello dell’anagrafe è l’unico rammarico che ha, ma non perché gli rende difficile l’approccio al mondo del lavoro, quanto perché non ha potuto rimanere a fianco dei giovani che, nella sua Patria stanno giocando una grande partita rivoluzionaria, dopo quarantatré anni di khomeinismo. Una dittatura crudele, che manda a morte le nuove generazioni, solo perché osano far cadere una ciocca di capelli, fuori dal velo.
Lo ascolto e ricordo, come fosse ieri, quello che mi diceva un amico iraniano residente a Verona, nell’inverno tra il ’78 e il ’79, quando Ruhollah Kohmeini si accingeva a ritornare in Iran, da Parigi dove era stato esiliato. Nell’Europa di allora, ancora sotto sbornia di Sessantotto, c’era chi inneggiava alla cacciata dello Scià, amico degli imperialisti americani, mentre salutava il rientro dell’ayatollah nella sua terra, come una sorta di ripristino della giustizia divina, vincitrice sui demoni dell’Occidente corrotto. Vedrai, mi diceva, cosa succederà tra poco. Possibile che in Europa non ci si renda conto dei rischi cui andremo incontro, con il rientro di questo fanatico dittatore? Questo amico, che di religione era Baha’i, di lì a poco avrebbe assistito alla persecuzione e alla condanna a morte di parenti e amici che professavano la sua stessa fede.
Quelli erano i giorni in cui a Teheran si viveva una sorta di eccitazione parossistica. I taxi si fermavano per strada per consentire alla gente di osservare la luna, per ammirare il miracolo del volto del loro salvatore, di ritorno dalla Francia, che sembrava sorridere dalla faccia del nostro satellite. Khomein, il paese di origine dell’ayatollah, sarebbe diventato di lì a poco una sorta di Lourdes in chiave islamica, così come il mausoleo costruito alle porte di Teheran, subito dopo la sua morte.
Nei giorni scorsi la casasantuario a Khomein è stata data alle fiamme. Alle porte della capitale, fantocci, con il volto dell’ayatollah e dei pasdaran che fanno da guardiani alla rivoluzione da lui introdotta, penzolano dai ponti con un cappio al collo. “È la fine” recitano striscioni beffardi, appesi di notte in giro per il Paese. Dai libri di storia si strappano le pagine che riproducono il volto di Khomeini, mentre una rivoluzione inarrestabile sembra avanzare con la stessa forza di un esercito in guerra. Il governo prova a nascondere, mettendo la censura a giornali e televisioni, ma la Tv di Stato non la guarda più nessuno. Soprattutto nessuno crede più a quello che racconta, a vantaggio di quanto arriva con i satelliti, cui le nuove generazioni sembrano credere e ispirarsi.
Ora la rivolta sembra aver imboccato una strada di non ritorno, mettendo sul piatto la questione della donna, determinata ad uscire dal Medioevo in cui è stata confinata, insieme al mondo delle università e della cultura, più che mai deciso a camminare al passo del ventunesimo secolo. Un fiume di sogni, che solo la stoltezza di Guide supreme fuori della storia, pensa di spegnere dentro un bagno di sangue.