Oltre le ciocche di capelli
Da Saman a Mahsa la dignità delle donne da “ricucire” ogni giorno.
di Irene Ciambezi
E’ la quarta settimana di proteste e manifestazioni in Iran, in nome di Mahsa Amini, la 22enne curda morta dopo essere stata arrestata dalla polizia perché non indossava correttamente. Più di 150 manifestanti che hanno perso la vita, migliaia di manifestanti arrestati dalle forze di polizia repressiva, 35 giornalisti arrestati. Notizie e immagini che però sono difficili da recepire anche perché le autorità hanno limitato l’uso di Internet.
La reazione del popolo iraniano e l’immagine dei veli al vento e delle ciocche di capelli tagliate in realtà ha radici profonde che si mostrano ai media occidentali in modo più evidente ma non sono di oggi. Tra il 1978 e il 1979 l’Iran da monarchia divenne una repubblica islamica sciita, la cui costituzione si ispira alla legge della shari’a. Nel primo decennio del 2000 si sono intensificate le rivolte e le proteste popolari. Ed oggi ancora di più per la partecipazione delle donne ma anche di studenti e studentesse delle scuole superiori e delle università.
Conosco famiglie iraniane scappate dal regime degli ayatollah per non esser più perseguitate. Ho per amiche donne rifugiate politiche in Europa che hanno trovato qui la possibilità di libertà di espressione e di parità di diritti. Alcune hanno il velo, altre non lo mettono più. Non è solo sui simboli – seppur importanti e tra l’altro molto diversi tra loro per significato – che deve fermarsi l’opinione pubblica oggi.
Troppo spesso per i cittadini d’Europa si tratta di mondi lontani, problemi che non interessano la nostra vita e per cui incolpiamo impropriamente le religioni. Eppure quando una vicenda diversa come quella di Saman Abbas la diciottenne pakistana uccisa nel reggiano dai suoi stessi familiari perché aveva scelto di vivere libera dall’oppressione dei matrimoni forzati accade vicino a noi, la prospettiva cambia e le distanze si accorciano. Ci sono gruppi etnici e religiosi, minoranze ma anche interi popoli che non godono dei diritti inalienabili sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani che le Nazioni Unite ha adottato proprio nel secondo dopoguerra sulla base di un principio basilare di uguaglianza in dignità e diritti. Tra questi il diritto alla vita, alla sicurezza personale, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.
Questa umanità ferita non può che coinvolgere anche noi e in particolare anche noi, in quanto cristiani. La parità e reciprocità collaborativa tra uomini e donne, la libertà di espressione degli uni e degli altri non può che essere una battaglia pacifica comune. Se la dignità della persona, a qualunque latitudine sia, è rispettata è grazie a queste ragazze che scendono in piazza e scelgono di togliere i propri hijab così come a quegli uomini che stanno manifestando a difesa delle loro donne. Ma anche alla mobilitazione a livello locale e internazionale perché regimi oppressivi non elimino le differenze – di pensiero, di appartenenza etnica, di religione… – in nome del potere e di una concezione totalitarista dello Stato.
Già Papa Francesco parlando del Medioriente aveva richiamato da una parte al bisogno di dare più spazio alle donne per la pace, e dall’altra si era rivolto ai cristiani in una lettera ai patriarchi, ricordando l’immagine del tappeto. «Che le mani sapienti degli uomini e delle donne del Medio Oriente sanno intessere creando geometrie precise e preziose immagini, frutto però dell’intreccio di numerosi fili che soltanto stando insieme fianco a fianco diventano un capolavoro. Se la violenza, l’invidia, la divisione, possono giungere a strappare anche solo uno di quei fili, tutto l’insieme viene ferito e deturpato. In quel momento, progetti e accordi umani possono ben poco se non confidiamo nella potenza risanatrice di Dio».