Se vogliamo giovani felici dobbiamo insegnare loro a curare la vita interiore
Nel giorno in cui il vangelo mette in guardia dalla ricchezza e dai suoi pericoli, mi avvicina una madre per parlarmi del figlio adolescente. Ha dentro tanta tristezza, come se la rassegnazione stesse prendendo il sopravvento, fino a portarla a gettare la spugna. Fatica perfino a descrivermi cosa sia diventato. Poi trova una pennellata di amarezza, inattesa, che mi tocca dentro. Mio figlio “è come se fosse senza anima”, mi dice. Proprio così. L’espressione è impropria, cruda, ma rende l’idea. Soprattutto, racconta una realtà molto diffusa, quella di generazioni che crescono povere, ma sarebbe più giusto dire vuote di interiorità. È l’inganno della ricchezza, penso tra me, o forse semplicemente delle cose, che poi sono la stessa realtà, detta con termini diversi.
Gesù non demonizza la ricchezza. Anche lui, con i suoi discepoli, aveva una cassa. Poi, come sono solito dire, ha fatto l’errore di scegliersi l’amministratore delegato sbagliato, il quale si è rivelato più attento ai denari che a quanto il maestro andava dicendo e facendo. Però ci mette in guardia dai rischi che i beni ci fanno correre, quando diventano un idolo. E non lo fa per ragioni moralistiche, semplicemente perché, volendoci bene come nessuno, vorrebbe evitarci di star male e di finire male.
Gli idoli, è opportuno ricordare, non sono un falso teologico, cioè un’offesa a Dio. Sono invece un falso antropologico, cioè sono un progetto deviante, sul quale la persona fa i sui investimenti. Un’offesa all’uomo. Che sia il denaro, il divertimento, il sesso, l’estetica… poco cambia. Il benessere ci ha fatto credere che quanto bastava a farci felici ce lo potevamo procurare da soli, senza bisogno di Dio e di una morale che facesse da bussola. Abbiamo imparato a credere che poteva ingannare il tempo e le sue rughe, predicando un giovanilismo che lasciava i vecchi sulla scena a tempo indeterminato, rubando il protagonismo ai giovani. Tutti belli, giovani e butulinati, salvo chiedere una legge per uscire di scena, quando la carrozzeria diventava irreparabile.
Chi, come me, è cresciuto nel dopo guerra, ha ancora vivo nella memoria il passaggio dai tempi della fatica verso i tempi del benessere, dove benessere voleva dire non far mancare niente. Si poteva dare tutto e il tutto si poteva comprare. E così, scivolando nell’illusione di poter diventare buoni e felici con le cose, abbiamo finito per abbandonare l’interiorità. È la morte dell’interiorità la causa dell’infelicità. Se oggi suicidio è la seconda causa di morte dei giovani, dopo quella degli incidenti, dovremo pur chiederci dove abbiamo sbagliato, se abbiamo reso infelice la più promettente stagione della vita. Abbiamo rubato i sogni alle nuove generazioni, seppellendoli di cose, convinti che li avremmo resi felici. Di fatto, abbiamo consegnato loro soltanto un surrogato della felicità.
E come se questo non bastasse, abbiamo reso inutile anche la loro memoria, quel “luogo non luogo” dell’interiorità, come lo chiama sant’Agostino, dove la storia, la fede, la bellezza, i sentimenti, le emozioni si combinano con il pensiero, trasformando gli esseri umani in creature responsabili e capaci di scegliere. Li abbiamo consegnati al digitale, un genitore surrogato, che li ha affamati del brivido dell’emozione e della fretta, dove tutto si consuma in 24 ore, senza bisogno di mettere nella dispensa alcunché da conservare.
Li abbiamo lasciati soli dentro le piazze digitali, in cui possono trovare tutto, dalla pornografia alla violenza, dove possono crescere amori e amicizie virtuali, più attente alla curiosità che ai sentimenti veri. Soprattutto li abbiamo portati fuori dalle piazze dove si parla di Dio, divenuto scomodo, perché, non essendo una cosa, non entra nelle logiche di mercato, quelle dove ci si illude di comprare la felicità.