A chi ha mandato a casa il governo il 25 settembre prossimo faremo insieme: cucù!
Se torno sulla pagina indecente che ci ha consegnato il Parlamento italiano la scorsa settimana è per più ragioni. La prima è per dare voce al disgusto e all’indignazione della gente. La gente comune, quella che fa fatica ad arrivare a fine mese, con pensioni da Terzo Mondo, alle prese con bollette insopportabili, con un caro carburante che rende impegnativo conciliare pieno e stipendio. In 35 anni da che faccio questo mestiere, non mi era mai capitato che la gente mi scrivesse per esprimere il proprio disgusto in questi termini e in questa portata. La gente che ti ferma per strada, al bar, fuori dalla chiesa… e tutti con lo stesso ritornello.
Quello che è accaduto la scorsa settimana non è stata soltanto la fine di un governo, ma la rottura radicale tra la già scarsa fiducia dei cittadini e coloro che gozzovigliano in Parlamento. C’è un’indignazione che andrebbe incanalata in maniera formale, da qui a quando andremo a votare il 25 settembre. Tenuta viva verso i parlamentari e il loro silenzioso e acquiescente opportunismo. Guardarli in faccia e dire loro con franchezza che la partita è chiusa. Tenere viva l’indignazione per andare sotto il palco dei venditori di frottole per dire loro che non siamo più disposti a firmare cambiali in bianco. Anche rumorosamente, se è il caso, perché nel tempo dell’idolatria dell’immagine, sbertucciare gli stolti e incapaci è generoso servizio.
Scrivo, poi, per una seconda ragione. Per dire ai cattolici e a tutti coloro che conservano un briciolo di coscienza che il loro silenzio e la loro defilata irrilevanza politica, più che un rifugio nel privato, è ormai un peccato di omissione. Sono cresciuto negli anni della confrontandomi con pagine bibliche in cui la profezia era sì profezia di annuncio, ma anche quella coraggiosa di denuncia. Basterebbe leggere l’apologo di Iotam nel libro dei Giudici, al capitolo 9: «Ascoltatemi, signori di Sichem, e Dio ascolterà voi. Si misero in cammino gli alberi per ungere un re su di essi. Dissero all’ulivo: regna su di noi. Rispose loro l’ulivo: rinuncerò al mio olio, grazie al quale si onorano dei e uomini? Dissero gli alberi al fico: vieni tu, regna su di noi. Rispose loro il fico: rinuncerò alla mia dolcezza e al mio frutto squisito? Dissero gli alberi alla vite: vieni tu, regna su di noi. Rispose loro la vite: rinuncerò al mio mosto che allieta dei e uomini? Dissero allora gli alberi al rovo: vieni tu, regna su di noi. Rispose il rovo agli alberi: se in verità ungete me re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra».
Ecco cari lettori, a noi è capitato il tempo dei rovi e forse ci manca l’audacia del profeta Amos quando rivolgendosi ai governanti del suo tempo così li apostrofava: «Ascoltate queste parole, o vacche di Basàn, che siete sul monte di Samaria, che opprimete i deboli e schiacciate i poveri» (Am. 4, 1 ss.). Oltretutto, oggi non si gioca soltanto sulla pelle dei cittadini, ma si assiste alla degenerazione del concetto stesso di democrazia, la quale non si esprime tanto nella rappresentanza elettorale, quella di chi va in Parlamento e poi chi si è visto si è visto, ma nella effettiva capacità di interpretare i bisogni della gente e indirizzare il Paese sulle strade della promozione sociale. Senza questo continuo confronto tra eletti ed elettori, la politica si sfinisce nella cultura del privilegio, se non anche della corruzione.
Il 25 settembre, quando andremo a votare, è dopodomani. Che nessuno sia tentato di non andare. Se del caso, ve lo ricorderò. Non manchi nessuno degli indignati, anzi tenete in vista la tessera elettorale sul tavolo di cucina. Andremo a votare, eccome che ci andremo. E a chi ha mandato a casa Draghi, per interessi di bottega, faremo cucù.