“Sapere è potere”
“Sapere è potere” è un’espressione attribuita a Francesco Bacone. Secondo questo filosofo del sedicesimo secolo, la natura rappresenta una grande fonte di risorse a disposizione dell’essere umano, che ne è padrone e ha la possibilità di servirsene come meglio crede, con l’unico obiettivo di portare vantaggio a se stesso. A questa concezione aveva contribuito, tra l’altro, una interpretazione sbagliata del primo capitolo della Genesi, dove si legge “Dio creò l’uomo a sua immagine; (…) maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente”. Non tutti hanno capito in che senso l’uomo deve dominare; anche se nel secondo capitolo (versetto 15) questo significato era espresso abbastanza chiaramente. Infatti si dice, “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”. All’uomo spetta coltivare e custodire il creato per soddisfare i propri bisogni e trasmetterlo sempre più bello alle generazioni successive. Oggi ci rendiamo conto quanto sia importante questo nuovo atteggiamento.
L’espressione “sapere è potere” spesso è anche associata, soprattutto nella cultura nordamericana, all’altra “volere è potere”. E’ la base di una ideologia chiamata “pensiero positivo”. Essa ha come finalità sottintesa scaricare la colpa della povertà e della miseria su chi, invece, ne è vittima; e in questo modo giustifica le disuguaglianze e le ingiutizie sociali. Io, però, vorrei associare questa espressione a un altro binomio, “teoria e pratica”. Sono due aspetti del conoscere e dell’agire che spesso sono contrapposti, con la tendenza a prestigiare la pratica e a disprezzare un poco la teoria. Questo è un errore. Infatti è proprio in rapporto all’agire che appare la forza e il potere del conoscere. Quando la pratica non è orientata da una conoscenza adeguata è come un automobile senza guida: certamente va a sbattere e non raggiungerà mai il suo scopo. E’ vero che anche la conoscenza, quando non è tradotta in pratica, realizza poco; in ogni caso se la conoscenza è vera, in quanto tale non produce guai e rimane sempre un invito all’azione. Teoria e pratica non possono essere disgiunte. Anzi, tra loro si innesca anche un circolo virtuoso: la teoria guida l’azione e la pratica suscita sempre nuove domande che spingono la mente a nuovi approfondimenti e a successivi progressi nell’agire. L’esperienza umana si arricchisce proprio in virtù di questa dialettica che si stabilisce tra teoria e pratica.
Desidero aggiungere un’altra osservazione. La dialettica tra teoria e pratica non può prescindere di un terzo elemento: le possibili finalità che l’uomo può porsi nel suo agire. Un esempio molto eclatante ci permette di capire: l’energia nucleare. La scienza ci dice quali sono i possibili usi che l’uomo può farne: può usarla per distruggere (ciò che di fatto avvenne con le bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki), o può usarla per produrre energia, necessaria nell’industria e per altre cose. E’ chiaro che il criterio che deve orientare nella scelta delle possibili finalità deve essere il bene dell’uomo e di tutti gli uomini. E quando le possibili finalità di una nuova conoscenza sono varie, è necessario stabilire priorità. Per esempio, è più importante permettere a un miliardario di spendere milioni per un breve viaggio nello spazio, o è meglio spendere quei soldi per impedire la morte certa di migliaia di bambini? In questo senso, anche le ricerche dovrebbero obbedire a criteri umani e a priorità che le giustificano.
Papa Francesco, che ha arricchito il nostro linguaggio con termini nuovi e soprattutto con immagini molto eloquenti, più di una volta ha detto che il nostro fare, e le scelte che lo devono guidare, deve partire dalla mente, passare per il cuore e giungere alle mani. Testa, cuore, mani. Questo è il tragitto che deve seguire il nostro agire.