Saper leggere la santità come un cartello stradale perché il Vangelo parli nel tempo
Domenica 15 maggio la Chiesa ha proclamato la santità di dieci suoi figli e figlie. Chiedersi chi è il santo non è solo una questione spirituale, ma più ancora cercare di decifrare cosa il Signore vuole dire ai credenti dentro il variare della storia. Perché i santi, a prescindere dall’epoca in cui sono vissuti, sono l’attualizzazione storica della Parola di Dio.
Quando si parla dei santi, il rischio è quello di omologarli attraverso una lettura solo spirituale, che finisce per farli simili gli uni agli altri. E allora il santo diventa quello che pregava molto, che meditava a lungo la Parola, che faceva lunghe penitenze, che era sollecito e generoso nella carità. Quasi un copia e incolla che fa perdere di vista lo specifico del loro messaggio alla Chiesa e al mondo. Indubbiamente anche una lettura spirituale della santità ha il suo valore. Fosse altro, perché essa ci ricorda che la relazione teologale col Signore deve venire prima del nostro fare e delle stesse norme morali.
La vita cristiana autentica fiorisce da una relazione, nella quale il Mistero di Dio si rivela progressivamente in noi, lasciandoci capire che è Lui che parla, opera e che ci aiuta ad amare come Lui amato. Credere di essere cristiani perché si fanno molte cose o perché siamo rigorosi o rigidi nel rispetto della morale può portarci ad avere una vita umanamente corretta, virtuosa, ma non necessariamente evangelica.
Dicevo che dei santi dobbiamo fare una lettura ecclesiale, oltre a quella spirituale. Che tradotto signifi ca domandarsi quali siano le indicazioni operative che ci vengono dalla loro testimonianza. Il santo o la santa sono, sì, un orgoglio della Chiesa, esemplari nella risposta alla chiamata evangelica, ma guai a isolarli nella loro grandezza, quasi dei privilegiati, dalle doti straordinarie, tra tanti poveri cristiani condannati alla mediocrità.
Il santo, se lo leggiamo nella prospettiva ecclesiale, è un cartello stradale (detto con tutto ri- spetto), con cui Dio indica la rotta che vuol dare alla sua comunità. È il battere le mani di Dio perché i credenti cambino vestito, smettendo le abitudini rassicuranti, le certezze del già sperimentato, del si è sempre fatto così, delle verità perenni della Chiesa, vendute come verità evangeliche. Nella crisi religiosa in cui siamo immersi, a volte si ha l’impressione che la Chiesa si ostini a indossare vestiti d’altri tempi, che sanno di moda passata, sapendo invece che il linguaggio di Dio si adatta continuamente ai tempi delle creature e alle situazioni della loro storia che cambia.
Qui non si tratta di essere moderni per il gusto del conformismo culturale, quanto di domandarci cosa Dio stia dicendo al presente e come vuole che anche noi lo diciamo. Quando, legha gendo i Vangeli, ci imbattiamo in episodi particolari come l’incontro di Gesù con la samaritana, l’adultera che si vuole lapidare, Zaccheo che ha fatto delle tangenti la sua professione, il centurione romano… non possiamo fermarci solo ad una lettura spirituale, per esaltare la fede, il perdono, la misericordia, ma cogliere la rivoluzione sociale e lo stile nuovo che quei gesti domandano ai credenti di fare propri.
Chiedersi cosa insegna Charles De Foucauld con la sua testimonianza di vita nascosta è domandarsi se oggi l’evangelizzazione non debba ripartire ancora dalle case, come era ai tempi di Nazareth e di qualche tempo fa, più che dalle grandi strategie pastorali. E domandarsi perché l’indiano san Lazzaro, nel 1700, sia morto martire per aver difeso l’uguaglianza di ogni creatura contro la logica delle caste, è proclamare l’urgenza di una fraternità umana ed ecclesiale di cui non sempre si vedono le tracce.