Nelle canzoni del passato la creatività della gente capace di raccontare la vita
Roma, 18 aprile – Il cantante Blanco all’incontro degli adolescenti con il Papa ph Siciliani-Gennari-SIR
Un pranzo nei giorni festosi dopo la Pasqua, con tanti amici di tutte le età. Cose semplici, dove è più facile cogliere il perché la mensa sia fonte di fraternità. Tutto all’insegna della più compassata tradizione. A cominciare dalle brave signore che stanno in cucina e che sanno fare le cose come una volta e come solo loro sanno fare. Affermazione questa che potrebbe costarmi l’accusa di maschilismo, ma che non sono disposto a rimangiarmi per tutto l’oro del mondo. Tanto più che queste signore non hanno bisogno né delle femministe che le difendano, né del politicamente corretto, perché sanno benissimo come e cosa fare per vedere riconosciuta la loro dignità. Se la mensa celebra la loro competenza, è la fisarmonica di un giovane commensale, quarantina d’anni circa, a fare il resto. Si esibisce in un medley, come dicono quelli che sanno, ossia una serie di brani eseguiti uno dopo l’altro senza interruzione e in forma abbreviata. Sono canti popolari, popolarissimi. Basta che parta la prima nota, perché il fiume di voci si trasformi in coro. Mi unisco al canto e penso.
Certo, le parole sono datate e un po’ naif, ma il messaggio che passa va oltre le parole. Scontato il fatto che il canto unisca e metta allegria, scontato il fatto che tutti cantino conoscendo le parole, ciò che impressiona è vedere come in passato vi fosse una creatività dal basso capace di esprimere lo svariato scenario dei sentimenti umani. Era qualcosa che veniva dal popolo, con l’ingenuità e il fiuto istintivo del popolo, che conosceva gli umori di una società dove non esisteva la privacy e dove il cuore umano era in piazza senza bisogno che gli psicologi lo raccontassero. Che si parlasse di amore, di sogni proibiti, di lavoro, di cibo, di speranze o di guerra… era il sentire della gente che veniva incanalato e condiviso dalla coralità che lo esprimeva. Ed erano canti di singolare presa emotiva, sia per le melodie e il ritmo, ma anche per la facilità di esprimere in ritornelli facilmente memorizzabili i contenuti che si volevano raccontare.
Penso a tutto questo e realizzo che quel tempo è davvero passato, come è passata certa moda, l’arte di curarci, l’alimentazione e tanto altro. Penso soprattutto, e qui fa capolino il rammarico, ad una società indottrinata che ha perduto il gusto della creatività. Oggi vanno di moda gli influencer, che poi, altro non sono che i simboli del pecoronismo dilagante. Più che le competenze e la bravura, quasi sempre conta la loro visibilità. Sono loro a dirci come vestirci, cosa mangiare, dove fare le vacanze, quali oggetti comprare e di quale marca, quale musica ascoltare, e a quali condizioni possiamo dirci davvero cool. Che si pronuncia cul, ma nel linguaggio giovanile vuol dire chi sa destare meraviglia, approvazione. In definitiva, fantastico.
Se poi non bastassero gli influencer e lo stuolo di aspiranti tali (provate a chiedere quanti adolescenti sognano di fare questo mestiere!), è tutto il mondo del mercato a pilotarci verso i lidi dove il gatto e la volpe ci attendono al varco. Poco male, direte voi, se tutto questo fa muovere l’economia. Peccato invece che a fermarsi sia la parte migliore delle intelligenze e degli animi, senza la quale diventiamo soltanto fruitori e consumatori. E mi perdonerete un po’ di nostalgia se penso che Vecchio Scarpone o la Montanara saranno pian piano travolte dall’ultima dei Maneskin o dal brano di qualche rapper in via di provocazioni creative. Ai Brividi di Sanremo, c’è pur sempre un brivido più raspante, che è quello dell’animo della gente, che ha certamente qualcosa da dire e da cantare insieme.