La violenza sulle donne non è soltanto ucciderle ma tanto altro ancora
Se il 2021 ci consegna 116 femminicidi, praticamente uno ogni tre giorni, vuol dire che è ora di parlarne in casa oltre che sui media. E anche nelle nostre parrocchie. Se davvero il nostro compito è quello di annunciare al mondo la Buona Notizia, non è più possibile prescindere da un’analisi seria, che coinvolga tutte le fasce anagrafiche e le realtà sociali coinvolte. E non si tratta soltanto di guardare al fatto che si uccidono le donne, ma bisognerà cominciare a guardare anche alla troppa violenza che si consuma dentro troppe case.
C’è stato un tempo in cui la parola femminicidio mi creava una certa allergia. Perché, mi chiedevo, c’è bisogno di fare una distinzione tra l’uccisione di un uomo e quella di una donna? Poi ho compreso che nel dare la morte a una donna è compresa la motivazione che sta alla base del delitto. Ti uccido perché col tuo comportamento esci da quel ruolo che la cultura ti impone o da quel binario in cui dovresti rimanere secondo le mie aspettative. Dietro ovviamente c’è tutta una cultura passata dove la donna era effettivamente subordinata a un mamai schilismo dominante. Penso al delitto d’onore, ma anche al ridotto protagonismo sociale. È solo dopo la seconda guerra mondiale che le donne possono esprimere il loro voto, ed è solo nel 1996 che viene introdotta la legge sulla violenza contro di loro. Ancor oggi, giusto perché non ci sentiamo troppo avanti, va ricordato che, a parità di lavoro, le donne hanno stipendi ridotti dal 30 al 50% in meno.
E si noti, che non si tratta solo di numeri. Dietro si nasconde l’idea che, comunque, il lavoro femminile vale meno. Se ammazzare una donna resta un dramma che deve sconvolgere le coscienze di tutti, altrettanta attenzione va fatta sulla violenza che si consuma nelle famiglie, anche se non avrà mai la luce dei riflettori. Penso alla violenza sessuale, ma soprattutto a quella fisica. Botte, ma anche minacce. Minacce che forse non arriveranno alla concretezza dei pugni o dei piatti che volano, ma che pure contribuiscono a creare un clima di paura e di sottomissione.
Penso poi alla violenza psicologica, oggi sottovalutata purtroppo. È quella sottile umiliazione costante, giocata soprattutto davanti ai figli e agli ospiti che girano per casa. “Non sai fare niente”, “sei una frana”.” Con te è inutile parlare perché tanto non capisci niente… Mia madre sì sapeva fare le cose, invece…”. Sembrano parole irrilevanti ai fini di un comportamento giudicato violento. In realtà sono la goccia che scava dentro, creando sensi di inadeguatezza, di profonda sfiducia. Un sentimento paralizzante, che porta la donna a dire: io non valgo niente. Ma quante sono le situazioni riconducibili a questo stile, magari giustificate col fatto che lui ha un carattere difficile, uno modo di fare legnoso? E quanti sono i preti che consigliano di portare pazienza, anziché aiutare queste situazioni ad uscire dalla ragnatela di una violenza di fatto che si ripete con dolorosa ritualità?
Violenza che troviamo anche a livello economico, quando la donna non ha una propria indipendenza ed è costretta a gestire le concessioni minime del maschio che ha i cordoni della borsa. Pronto a recriminare per qualsiasi uscita, anche minima, se non preventivamente autorizzata. Donne che devono marciare con la calcolatrice, per evitare di sforare il budget, senza mai avere la libertà di dare seguito a un desiderio coltivato nel cuore. È anche a queste violenze che dobbiamo guardare, senza illuderci che il male si nasconda solo nelle pagine della cronaca nera. Il male contro la donna è presente molto più di quanto si creda anche nelle nostre cattolicissime famiglie e il coraggio di affrontare i problemi e denunciarli è solo il primo passo di quella che vogliamo chiamare conversione.