Il valore delle parole per dare fondamento a un futuro di speranza
Opera di Emilio Isgrò esposta nella mostra Isgrò Dante e la Sicilia a Villa Zito Palermo – ph emilioisgro.it
Lo scorso anno quando si celebravano i 700 anni dalla morte di Dante, fui contattato da alcuni galleristi che mi chiesero di visionare gli incunaboli della Divina Commedia da mostrare a Emilio Isgrò. L’obiettivo era quello di riprodurre alcune pagine da consegnare all’artista. Di Isgrò avevo sentito parlare. Sapevo che era personaggio importante della cultura, ma non conoscevo assolutamente le sue opere pittoriche.
Feci una rapida indagine e così venni a sapere che, non solo era artista conosciuto in tutto il mondo e tra i meglio quotati sul mercato internazionale, ma soprattutto fui conquistato dalla potenza della sua arte, così fredda e apparentemente banale agli occhi di un frettoloso profano. Si dice che l’ispirazione gli fosse venuta quando, giovane dipendente del Gazzettino di Venezia come responsabile del settore cultura, doveva correggere i testi cancellando, con un tratto di pennarello nero, le parole di troppo o non adeguate.
L’arte gli era fiorita tra le mani, guardando quelle righe nere, che lasciavano sopravvivere alcune parole, nascondendo il frastuono di quelle di troppo. I suoi quadri sono tutti così, pagine di opere letterarie di varie misure nelle quali, con colpi di pennello nero viene cancellata la maggior parte delle parole per lasciarne soltanto alcune. Lì in evidenza, quasi a sgomitare per farsi largo, dentro ad una cultura dove le parole stanno perdendo sempre più il loro significato e la capacità di mettere in relazione le persone.
Penso, ad esempio, alla parola libertà, sulla bocca di tutti come un mantra. Ma cosa vuol dire libertà nel sentire della società in cui viviamo? Mi torna alla men- te l’Odissea, quando Ulisse, avvicinandosi all’isola delle sirene, chiede ai compagni di legarlo al palo della vela e di turarsi le orecchie per evitare che il loro canto li facesse prigionieri per sempre. Sappiamo che Ulisse all’udire il canto scongiurò gli amici perché lo liberassero e lo lasciassero andare. Per sua fortuna non poterono sentirlo ed esaudirlo e questo gli consentì di far ritorno a casa. Dentro la società del vietato vietare, cosa si intende oggi per libertà? Ulisse era libero quando si fece legare o quando chiedeva di poter fare quello che voleva? Siamo liberi perché ci poniamo dei limiti o quando facciamo tutto quello che l’istinto ci spinge a fare?
Penso alla parola fede. Chissà quale caleidoscopio di risposte potremmo inanellare in un ipotetico sondaggio. Da chi la vedrebbe come nemica della ragione, a chi la ridurrebbe a pratica religiosa, da chi la confinerebbe negli spazi della superstizione a chi la vedrebbe come plagio dei poteri ecclesiastici. Eppure la fede è l’atteggiamento psicologico che muove tutto il nostro agire. Pigiamo l’acceleratore perché ci fidiamo che l’asfalto sia integro, andiamo alla fermata dell’autobus perché crediamo che passerà a quell’ora, accendiamo gli elettrodomestici perché diamo per scontato che non mancherà la corrente…
Ma più a fondo ancora, fidarsi è andare in cerca sempre di qualcosa di nuovo e di meglio, dal quale far dipendere la qualità del nostro futuro. Perché diamo il voto a un candidato sindaco piuttosto che ad un altro? Perché ci fidiamo di un partito piuttosto che di un altro? Perché ci informiamo su quale sia il migliore medico per le nostre patologie? Tutti ci fidiamo di qualche dio. Più spesso minuscolo, qualche volta maiuscolo.
Ma chi dicesse di non avere la fede in Dio, dovrebbe onestamente chiedersi: in quale dio minuscolo sto investendo, come assoluto di sostituzione? Chiarire il significato delle parole è operazione fondamentale. Mi torna alla mente quanto diceva profeticamente il cardinale Biffi: «Nel rispetto delle parole sta il principio della salvezza».