Gli scenari di guerra ci ricordano che la politica non può essere tutto
«È venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura, una politica che è solo far carriera, il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto e un dio che è morto. Nei campi di sterminio dio è morto, coi miti della razza dio è morto con gli odi di partito dio è morto… Ma penso che questa mia generazione è preparata a un mondo nuovo e a una speranza appena nata, ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi, perché noi tutti ormai sappiamo che se dio muore è per tre giorni e poi risorge…».
Era la metà degli anni Sessanta quando Francesco Guccini, con audacia profetica, annunciava un cambiamento epocale. In quel dio è morto si sentiva l’eco di quanto era accaduto pochi anni prima. L’orrore dei campi di sterminio, i miti della razza, l’odio fratricida che aveva lasciato scie di sangue in ogni angolo d’Italia cedevano ora il passo alla speranza. Come in una Passione di Johann Sebastian Bach, dove il dramma del venerdì santo è comunque trasfigurato di bellezza, quello dell’attesa per il trionfo della vita e del bene.
Sessantadue anni dopo siamo qui a chiederci dove sia finito quel sogno. I rumori di guerra sono più forti che mai e, quando non li sentiamo, è solo perché la cronaca è distratta o impegnata altrove. Putin contro l’Ucraina, il governo indiano contro i cristiani, così come alcuni governi islamici. La dittatura cinese e quella Nord Coreana. La Libia di nuovo in guerra civile, la Turchia che islamizza il Paese all’andatura del trotto cancellando conquiste civili, senza contare i mille focolai di guerra sparsi per il mondo… Una litania di dittature accomunate dall’unica preoccupazione, quella di conservarsi al potere, insieme alla paura della democrazia. In definitiva, la paura della libertà.
E così ci troviamo davanti agli emuli di Babilonia, pronti a seminare lacrime e sangue pur di garantirsi l’illusione di un potere che non dovrebbe finire mai. Si nascondono dietro il mito dello Stato chioccia, vedente e provvidente. Ma sappiamo bene, e ce lo insegna la storia, che lo Stato non può mai esaurire le speranze e i bisogni di un popolo. Né quello delle dittature e neppure quello delle democrazie. La fede, da cui viene la speranza, è sempre ricerca di qualcosa di ulteriore, di nuovo, più grande. È una coscienza critica che mette in discussione il momentaneo, il parziale, il limitato, l’egoismo che si nasconde tra le scelte umane. Solo la fede, quando non si riduca a pratica di scorza, è premessa di ogni autentica libertà, capace di relativizzare quegli assoluti che la politica mette in piedi, quando crede di avere il segreto della felicità tra le mani.
Ma oggi, con Guccini, sessantadue anni dopo, siamo qui a chiederci: ma c’è ancora la fede? Ci sono ancora cristiani capaci, non solo di obbedire, ma anche di fare obiezione di coscienza davanti ad uno Stato quando abbia la pretesa di violare la loro coscienza? Qualcuno sostiene che oggi i cattolici sono diventati afoni e insignificanti sul piano politico. Forse è così.
Ed è proprio quando la fede di un popolo viene meno che lo Stato si appropria di un ruolo totalizzante. Uno Stato dove, magari in nome del progresso e della democrazia, tutto diventa possibile, come uccidere i bambini in grembo, ammazzare il consenziente, coltivare droghe, consegnare le nuove generazioni all’idolatria di relazioni virtuali e all’illusione di futuro senza fatica, distruggere la famiglia o chiamare famiglia ciò che non lo è… Se la fede viene meno, ad avanzare non è la libertà, ma lo smarrimento. Quello di una società alla deriva nella quale cresce il senso dell’impotenza e della rassegnazione.