Guai a toccare Babbo Natale mito per bambini sognanti e sogno dei cacciatori di affari
Pretendere che monsignor Antonio Staglianò, vescovo di Noto, passi inosservato è come chiedere al sole di regalarci il buio. Lo chiamano il vescovo canterino, per via delle performance vocali con cui cerca di raggiungere il cuore delle nuove generazioni. Non sappiamo se pastoralmente parlando sia una strada maestra o un viottolo di campagna, ma l’intenzione va comunque lodata. Del resto, una buona voce, una altrettanto buona intonazione, la capacità di suonare qualche strumento musicale, tutto questo è risorsa che Dio gli ha dato in dotazione e che lui sta gestendo secondo la logica dei talenti di cui rendere conto.
L’efficacia di questo metodo di evangelizzazione sembra comunemente riconosciuta, soprattutto dalle sue parti, dove la gente risulta ancora molto sensibile alla tavolozza colorata ed emotiva dei sentimenti, così come risulta palese la sua notorietà, che ha varcato da tempo i confini della Trinacria. Oltretutto sembra che il politicamente corretto abbia da tempo deciso che un vescovo “fuori registro” sia, non solo apprezzabile, ma anche auspicabile e incentivabile. A meno che… A meno che non osi mettere in discussione Babbo Natale dicendo, come ha fatto, che non si tratta di una persona reale in carne e ossa, ma di una figura simbolica, alla pari della Befana e di Santa Lucia, personaggi consacrati nel ruolo di dispensatori di doni e coi quali, tutti e da sempre, abbiamo intrecciato le nostre infantili emozioni, attese, speranze…
È bastato che dicesse, davanti ad un gruppo di signore immerse nell’ingenua beatitudine di emotivi sentimenti materni, che non è Babbo Natale come figura reale a portare i doni, perché si scatenasse l’indignazione popolare, accompagnata dal biasimo arrivato col botto fin dentro la cronaca nazionale. Eppure l’intenzione di monsignor Antonio Staglianò, politicamente scorretta ma teologicamente perfetta, era lì a ricordarci che la vera sorgente dei doni, compresa la capacità di diventare dono a nostra volta, non fonda le proprie radici nell’immaginario, per quanto bello, ma dentro la storia di una persona, un certo Gesù di Nazareth.
Gesù che i cristiani, a dispetto dei consumatori di pasticche di laicismo, si ostinano a ricordare nel giorno della nascita, il 25 dicembre di ogni anno. Si racconta che la tradizione dell’albero di Natale, cresciuta nell’Europa del Nord, sia nata per ricordare che Gesù è venuto nel mondo per ripristinare quel giardino dell’Eden, quello della famosa mela, che l’egoismo umano aveva compromesso e rovinato. Nelle case si cominciò, la vigilia di Natale, a metter un albero addobbato di mele rosse, ai cui piedi si posavano i pacchi di regali da scambiarsi nella notte santa.
L’albero diventava così il simbolo di un’umanità riconciliata, in cui il dono di sé che Dio faceva agli uomini, venendo in questo mondo, diventava il paradigma cui ogni vita cristiana doveva ispirarsi. Per un Dio che si faceva dono, amarsi e servire diventava l’unico imperativo per chi diceva di volerlo seguire. Poi sappiamo bene come sono andate e come vanno ancora le cose, da quando i miti del consumo sono saliti in cattedra. La Luce del mondo si è scolorita nelle lucine a intermittenza, le mele sono diventate palle di vetro, il bambino poco più di un pretesto, molto gradito alle fabbriche di presepi e addobbi natalizi.
Progressivamente si è dovuto cedere il passo alla logica dei mercati, rubando spazio al mistero fino a rimpiazzare il bambino coi suoi scimmiottatori, tanto cari ai cassieri e alle aziende produttrici. Un po’ meno ai cristiani convinti e ai vescovi che dei cristiani si prendono cura. Soprattutto se questi vescovi decidono di dire cose politicamente scorrette.