La santa ignoranza
I costi sociali dell’analfabetismo religioso.
di Brunetto Salvarani
11 ottobre 2021: a Bologna chiudono le Edizioni Dehoniane, gloriosa casa editrice che ha educato generazioni di italiani, cattolici e non solo, a pensare con la propria testa e con strumenti scientificamente avvertiti. Nel 59° anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, e a pochi giorni dall’avvio del Cammino sinodale in Italia, l’evento appare quanto mai simbolico, ed è un’occasione per riflettere sul grave tema dell’assenza di una reale cultura teologica e biblica in Italia.
Di questo si è discusso, sabato 20 novembre, a Modena, presso la Fondazione San Carlo, in un convegno organizzato dalla Fondazione Pietro Lombardini, che ha visto la partecipazione del sociologo Franco Ferrarotti, del giurista Marco Ventura e della storica Francesca Cadeddu. Ne sono uscite delle indicazioni particolarmente interessanti, oltre alla conferma del fatto che l’attuale analfabetismo biblico e religioso si presenta come una vera e propria questione sociale, che dovrebbe allarmare non solo gli ambienti ecclesiali.
Negli ultimi anni non sono mancati ricerche e sondaggi che hanno confermato la sensazione diffusa di una generale scarsissima competenza al riguardo. Qualche dato, buttato lì. Se neppure un italiano su tre è capace di citare correttamente i nomi dei quattro evangelisti, meno di uno su quattro sa indicare le virtù teologali. Quando ci si addentra nelle pagine bibliche, non va meglio: domandare chi abbia dettato i dieci comandamenti a Mosè comporta, in otto casi su dieci, sentirsi rispondere un nome del tutto improbabile.
Ci si può fermare qui, per carità di patria. Con l’Italia che ne esce come un paese religiosamente del tutto analfabeta, vittima di quella santa ignoranza denunciata da Olivier Roy tempo fa in un libro definitivo ( La santa ignoranza, Feltrinelli 2009). A suo parere, il fondamentalismo avrebbe purtroppo un grande avvenire: con riferimento a una forma di religiosità che, nel migliore dei casi, non si interessa affatto del sapere, e nel peggiore considera che troppa cultura sia nociva per l’uomo di fede. All’epoca, peraltro, sul banco degli imputati era soprattutto la cultura francese, laica sì ma anche deficitaria in materia religiosa e segnata da qualche prevenzione nei confronti della libera espressione della propria fede.
Ma se è noto che la République non accetta che nei luoghi pubblici si esibiscano foulard islamici, crocifissi e turbanti, alla fine si sperava che in Italia le cose andassero diversamente. La presunzione era che nella terra dei presepi e delle processioni, dell’insegnamento della religione nelle scuole, sia pur facoltativo, e di una notevole presenza cattolica nel sistema delle comunicazioni di massa le cose andassero diversamente. E invece no, anche alle nostre latitudini si è rotto quel filo di comunicazione dei fondamentali del cattolicesimo tessuto in famiglia prima ancora che nelle parrocchie.
Così, se si hanno informazioni e idee confuse sulla propria tradizione religiosa, non ci si dovrebbe stupire se si accumulano fantasie e pregiudizi sulle altre. Tanto più quando il processo di pluralizzazione della scena religiosa avviene in tempi rapidi, com’è avvenuto qui; e nella pressoché totale disattenzione dei media, per i quali il mondo della fede coincide sostanzialmente con le dinamiche vaticane.
Fra l’altro, l’analfabetismo religioso comporta anche elevati costi sociali, perché concede spazio a incidenti culturali che minano la coesione sociale e rallentano i processi d’integrazione. Ignorare o misconoscere l’islam, ad esempio, significa perdere una cruciale chiave interpretativa per comprendere cosa accade nelle scuole o nelle mense aziendali, nei quartieri periferici o negli ospedali che sempre più si propongono come luoghi di incontro e persino di dialogo interreligioso.
Diagnosticata la malattia, è più difficile indicare la terapia. Il colpevole di questo delitto sociale non può essere il classico maggiordomo. Per invertire la posizione di un piano pericolosamente inclinato, occorrerebbe fare i conti con nodi storici, culturali, giuridici e perfino ecclesiali assai complessi. E ci si può attendere che si levino voci scettiche sull’opportunità di un’indagine su un ambito tutto sommato ritenuto secondario rispetto ad altri che riguardano la scuola, le competenze, i saperi.
Gli argomenti dello scetticismo sarebbero diversi, posto che le responsabilità del degrado andrebbero ripartite almeno fra l’università, il mondo dell’informazione, le famiglie, le stesse comunità di fede, chiamate a riflettere sulla loro reale capacità di formare credenti consapevoli e coscienti. In ogni caso, mi sento di affermare che lo studio non sia un optional né per il cristianesimo né per le altre religioni. E che nella confusa Babele della postmodernità le religioni avranno ruolo e spazio solo se sapranno dirsi con termini e concetti corretti (e comprensibili).