La violazione della privacy esigerebbe un sussulto di piazza da parte dei cittadini liberi
Da tempo sto pensando che la parola privacy (detta privasi all’inglese, o praivasi all’americana) sia come il dovere di pagare le tasse. Un po’ come le virtù, del resto. Predicate a parole, disattese nei fatti. Eppure il diritto alla riservatezza, come il pudore, che non è questione di biancheria intima, appartengono alla sfera della libertà. Uno ha il diritto di dire le cose che ritiene opportuno dire e a fare conoscere di se stesso quello che ritiene opportuno far conoscere, a chi vuole e a chi ritiene degno delle proprie confidenze.
È evidente che la privacy appartiene ai diritti fondamentali della persona e la civiltà di uno Stato si misura anche con la sua capacità di garantire ai cittadini il riconoscimento di questo diritto. È partendo da questa convinzione che, da anni, sulla privacy si sta giocando una smisurata campagna per garantirla, pari solo all’intensità con cui viene poi disattesa. Ci chiedono firme di qua, firme di là, ben sapendo che il rischio è quello di finire in piazza, dove tutti sanno tutto di tutti.
Nei giorni scorsi Vincenzo Spadafora, già ministro dello Sport in conto ai 5Stelle, ha dichiarato pubblicamente la propria omosessualità in diretta. Ero stanco del “brusio” che si faceva su di me, ha dichiarato con le lacrime agli occhi, togliendosi così un peso dallo stomaco. E noi a chiederci: ma che razza di civiltà è quella che sguinzaglia i segugi del pettegolezzo, per andare a scoprire l’intimità delle persone, il loro diritto alla riservatezza? Ma se il caso Spadafora ci rimanda a considerazioni velate di amarezza, la vicenda di Matteo Renzi ha colori ancora più drammatici.
Premetto che non sono qui a fare un assist politico al senatore fiorentino. Con lui si può essere d’accordo o meno, amarlo o detestarlo, ma quanto accadutogli non può non interpellare la coscienza etica di ogni cittadino. I fatti. Nei giorni scorsi, la Procura di Firenze è venuta in possesso dei tabulati del conto corrente della Fondazione Open, intestato a Renzi e alla moglie, conto che poi hanno girato ai giornali per far conoscere al mondo quanti soldi vi erano circolati e da chi li avevano ricevuti. Sono due gli aspetti sui quali vorrei soffermarmi, chiedendo ai lettori la serenità e l’onestà intellettuale del giusto distacco per una valutazione senza pregiudizi.
La Procura coinvolta ha giustificato il tutto ravvisando l’ipotesi del finanziamento illecito ai partiti. E qui emerge già la prima domanda. Una Fondazione, i cui introiti sono tutti regolarmente annotati, su cui sono state pagate le tasse, può essere equiparata ad un partito? Che poi uno usi questo denaro legalmente per costruirsi un futuro, questi sono affari suoi, di cui risponderà solo nella misura in cui abbia commesso delle illegalità. Ha dichiarato Carlo Nordio, già Procuratore Capo a Venezia: «Questo è il primo e unico processo politico della nostra storia Repubblicana. Da Tangentopoli in poi sono stati inquisiti molti politici, ma sempre per reati specifici. Qui invece la magistratura si attribuisce la funzione di decidere cosa sia un partito e cosa no. E questa è politica pura».
Ma essendo che ero partito per parlare di privacy, il secondo aspetto, che fa sentire basito il cittadino, è quello di chi si domanda come la magistratura sia venuta in possesso dei tabulati del conto corrente. Chi li ha dati, senza che sia stata seguita la procedura di rito? Chi in banca ha allungato la nota? E chi, dalla Procura, prima di conoscere se Renzi sia colpevole o meno, ha dato in pasto ai giornali tutti i dettagli dei suoi affari privati? E se diventasse prassi lo stile forcaiolo di mettere in piazza i nostri conti correnti, per poi sentirci dire che non abbiamo fatto nulla di male? Ma intanto… A quel punto forse soltanto i poveri veri sarebbero al sicuro. Paradossalmente beati.