Cammino sinodale. Se non ora, quando?
Alta la posta in gioco. Servono ascolto, pazienza e umiltà.
di Brunetto Salvarani
C’è un tempo per ogni cosa, sostiene il sapiente della Bibbia (Qo 3). E questo, certo, è il tempo per interrogarsi a fondo sui diversi significati di una pandemia che sta mettendo in ginocchio il pianeta, a oggi tutt’altro che conclusa. Ma per la Chiesa che vive a Carpi – al pari delle altre chiese della cattolicità sparse nel mondo intero – è altresì tempo di mettersi in cammino, anzi: di avviarsi con una certa speditezza per un cammino sinodale, come l’hanno definito i vescovi nella loro LXXIV Assemblea generale, svoltasi a Roma dal 24 al 27 maggio scorsi (si badi: una scelta che non è una diminutio rispetto a sinodo, rimandando tale locuzione a uno stile, una metodologia, un atteggiamento ecclesiale, ben più di quello che, nel caso peggiore, potrebbe risultare anche solo un mero adempimento burocratico). Il titolo programmatico, Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita, è anche lo slogan dell’evento, in cui, nelle parole del cardinal Bassetti, “oggi la Chiesa che è in Italia è chiamata a un discernimento che generi conversione, comunione e corresponsabilità”.
L’intera operazione si articolerà in tre fasi, partendo dal livello diocesano, passando poi al livello nazionale e di seguito a quello europeo e mondiale. Un impegno, va detto, da far tremare i polsi, pur limitandosi a scrutare il solo piano organizzativo: ma anche, e vorrei dire soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere al volo e sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di grande pazienza, grande capacità di ascolto e grande umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte dei laici, dei presbiteri, dei vescovi, non sarà per nulla facile. Soprattutto per la disabitudine di tutte le componenti, al riguardo.
La posta in gioco, in effetti, è davvero alta. Anche perché, almeno per ragioni anagrafiche, del cammino sinodale potrà presuntivamente sentirsi partecipe per l’ultima volta un’esperienza ecclesiale importante una generazione ancora in grado di fare riferimento al Vaticano II con qualche cognizione di causa, avendone udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato un po’ dell’atmosfera unica di quell’assise di quasi sei decenni fa. Una generazione che può ancora scaldarsi il cuore su temi (come le riforme ecclesiali o il sacerdozio comune) che alla stragrande maggioranza dei nostri giovani proba- bilmente appaiono sospesi fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi in qualche modo nel processo sinodale resta vitale.
Credo che la domanda sottesa a tale processo, sull’identità della Chiesa e su cosa significhi essere Chiesa oggi, vada declinata nell’unica modalità sensata: non rassegnandosi a contemplare il proprio ombelico né cimentandosi in analisi autoconsolatorie, come tal volta si rischia di fare, bensì misurandola sui suoi modi di relazionarsi con il mondo esterno, con quell’alterità che ormai ci abita e ci mette in crisi e spesso ci inquieta, con la vasta porzione di Paese che non solo ha smarrito il senso di Dio, ma non sente per nulla il bisogno di un’appartenenza ecclesiale e neppure ha la percezione di cosa voglia dire un’appartenenza simile (rimando all’analisi di un teologo di vaglia come il gesuita C. Theobald, che parla apertamente di esculturazione del cristianesimo dalla cultura europea).
Per orientarci e non smarrirci troppo, tra le mani abbiamo, dal 2013, una bussola credibile e non ancora sperimentata a fondo, il testo di Evangelii gaudium, che papa Francesco ha scritto non solo come programma del suo pontificato, ma come mappa di una Chiesa capace di uscita. E alcune parole-chiave: vangelo, fraternità, mondo. Tutte da riempire, perché ha ragione il nostro vescovo Erio, che ne ha parlato a Settimananews: “Non sono concetti: sono volti, esperienze, urgenze che riguardano tutte la necessità di ripensare l’annuncio di Cristo, in un contesto nel quale si sono riscoperte alcune grandi domande esistenziali”. Volti oggi ammaccati, confusi, oltre che mascherati. Sì, c’è tanto di che riflettere, in vista dell’ormai imminente cammino sinodale. Anche perché, come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot in un detto attribuito a rabbi Tarfòn: “La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene” (Pirkè Avot 2,18-19). Se c’è un tempo per ogni cosa, è questo il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi. Se non ora, quando?