Riaprire a tutti i costi senza obbligo di vaccino non è amare il prossimo
Provo un certo disagio nel sentire le dichiarazioni di ristoratori e titolari di discoteche che si oppongono ad un eventuale obbligo di presentare una tessera di avvenuta vaccinazione a chi entra nei loro locali. E il mio è un disagio che nasce da più ragioni. La prima è che fatico a capire dove stia la logica. Il buon senso e il ragionamento esigerebbero di fare un certo sillogismo: se nel mio locale entrano persone sane, la gente verrà più tranquillamente, più gente vorrà dire più guadagno, più guadagno migliori condizioni di vita per tutti. Sillogismo speculare e opposto: se lascio entrare persone col virus, il rischio è quello della quarantena, quarantena vuol dire chiudere il locale, chiudere tanti locali vuol dire pericolo di arrivare di nuovo in zona gialla o rossa, zone a colori vogliono dire ritorno a distanze obbligate, spazi all’aperto, minori clienti e quindi… L’impressione che mi rimane dentro è che pur di puntare agli incassi ad ogni costo, si sia disposti a tagliare il ramo su cui si è seduti.
Se questo discorso vale per i ristoratori, la situazione si complica ulteriormente quando di mezzo ci sono le discoteche. Perché qui la storia non riguarda solo la salute dei giovani, ma più in generale la proposta per farli divertire. Ricorderò sempre le parole di quel santo prete che è stato don Oresta Benzi, quando mi raccontava le scene che incontrava alle prime di luci dell’alba fuori dalle discoteche della sua Romagna. Sembravano i morti dopo un bombardamento, mi diceva. E tutto in nome dei soldi. Milioni e milioni tra ingressi e consumazioni. Ma poi, intorno ai dati ufficiali, girano quelli reali, che vivono di spaccio e che sono difficilmente computabili. Un Moloch economico, anzi una dea Kalì, in versione occidentale, che ha bisogno dei suoi riti e delle sue vittime.
Confesso che da tempo coltivo una certa allergia ai tanti discorsi in cui si parla di disagio giovanile, che è vero. Più che una ricerca oggettiva di soluzioni, si ha l’impressione di logorroiche analisi, incapaci di approdare alla concretezza di proposte attendibili. E quasi sempre, il tutto finisce in un giovanilismo celebrativo, che è l’arte ipocrita di accaparrarsi i giovani e la giovinezza, evitando di evidenziarne limiti e immaturità, disattendendo di fatto le urgenze di cui essi avrebbero bisogno.
La giovinezza è sì una singolare stagione di progettualità, ma è anche una situazione di incompiutezza rispetto alla pienezza della maturità. Lasciare il futuro dei giovani all’arbitrio dei loro desideri e della loro libertà è come condannare una crisalide a non diventare mai farfalla, consentendole di spiccare il volo.
Chi cerca davvero il bene dei giovani non li stima soltanto per quello che sono, ma ancor più per quello che potrebbero e dovrebbero essere. Senza questa prospettiva dinamica della loro vita, sarà sempre più difficile chiedere loro delle rinunce. A cominciare da un uso ecologico del tempo, ma anche da un generoso esercizio della libertà, che si coniuga con l’intelligenza e la volontà. Di libertà e di come dovremmo intenderla parlavo nei giorni scorsi a Telepace ricordando che essa non può esistere senza darsi dei limiti e dirsi quindi dei no e neppure può emanciparsi dal dovere di rispettare il bene degli altri.
Che qualcuno abbia trovato il modo di dirmi che i preti dovrebbero parlare delle cose di Dio, lascia chiaramente intendere che, secondo certa logica, Dio non dovrebbe disturbare i manovratori di questo mondo, in contrasto col Vangelo che ci chiede invece di essere coscienza critica e seminatori di vita. Ecco perché dietro a tanta insistenza per aprire tutto, a qualsiasi costo, mi risulta difficile intuire un amore per la gente e per i giovani, che vada oltre un molto prosaico interesse di cassa.