«Rimanete in me e io in voi»
Commento al Vangelo di don Carlo Bellini - Domenica 2 Maggio 2021
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 15,1-8)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Commento
Il capitolo 15 del vangelo di Giovanni ci introduce nella ricca immagine della vite che getta luce sul rapporto tra Gesù e i discepoli. Il discorso ha come sfondo il tema della vigna che era molto familiare ai lettori del vangelo provenienti dall’ebraismo, ma che qui viene innovato in alcuni aspetti. Nella Bibbia la vigna è per lo più immagine di Israele. Ci sono più di ottanta riferimenti alla vigna nell’Antico Testamento che vanno dal Cantico dei Cantici ai Salmi e soprattutto ai Profeti. Gli esploratori mandati da Mosè nella terra di Canaan riportano come segno della ricchezza di quella terra il frutto della vite (Nm 13,23). Economicamente la vigna è segno di ricchezza, si tratta di uno degli impianti produttivi più redditizi del Medio Oriente, tanto che per essa si può anche uccidere come nel caso della vigna di Nabot in 1Re 21. Per i profeti Israele è una vigna amorevolmente coltivata da Dio, che a volte porta frutto e a volte, a causa delle sue infedeltà, rimane sterile (Is 5,5; Ger 2,21; Ez 17,8; Os 10,1; Gl 1,7).
In Giovanni tuttavia il tema assume delle coloriture nuove e soprattutto serve a illustrare il rapporto con Gesù. È rilevante che il testo cominci con “io sono la vite vera”: ora non si parla di Israele ma la vigna è direttamente Gesù che diventa il punto fondamentale per decifrare l’immagine. L’agricoltore che coltiva la vigna è ancora il Padre, che continua a occuparsene anche mediante potature. Nuova è invece l’immagine della vite e dei tralci e di come il loro collegamento alimenti la vita e porti frutto. Fuor di metafora solo il rimanere uniti a Cristo porta i cristiani a una vera vita e a dare frutto. Il tema del rimanere è centrale qui come in altre parti del vangelo di Giovanni e la parola stessa è usata dieci volte nel testo di oggi. La vita cristiana è rimanere uniti a Cristo, è una comunione e dunque un’esperienza vitale. Solo questo può condurre a portare frutto. Per Giovanni i frutti sono l’esperienza della fede e dell’amore, in un atteggiamento di conversione continua. Chi non porta frutto viene gettato via e questo denuncia l’inutilità della sua vita.
Rimanere: il verbo greco meno che significa “rimanere” è usato dall’evangelista Giovanni per esprimere la permanenza del rapporto tra il Padre e il Figlio e tra il Figlio e il cristiano.
L’immagine della vite porta con sé anche la tecnica agricola della potatura che offre l’occasione di accennare a un aspetto della vita cristiana. Tutti sono potati da Dio sia chi porta frutto sia chi non ne porta. Non è facile comprendere bene il senso di questa potatura. Probabilmente è un’azione di Dio, anche connessa a una certa dolorosità o rinuncia, che porta a far crescere l’amore che lega il cristiano a Gesù e che riguarda anche la comunicazione della vita agli altri nell’attività missionaria. L’evangelista Giovanni in Gv 12,24 scrive “se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto” ed è evidente il riferimento alla morte e resurrezione di Gesù ma anche al sacrificio e alla donazione nella vita cristiana.
Il rimanere in Cristo è anche per noi una questione decisiva. Cogliamo qui un fondamentale riferimento eucaristico che l’evangelista ha già affrontato nel capitolo 6, nel discorso dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me” (Gv 6, 56-57). Dunque, la vita sacramentale è un grande dono per rimanere uniti a Cristo. Nondimeno è importante anche una vita retta, che incarni le virtù e s’impegni nel fare il bene, infatti il male che compiamo, il peccato, ci allontana da Cristo. Inoltre, è decisivo superare un certo senso di autosufficienza tanto diffuso nel mondo moderno e sentire la vita come luogo di comunione, aperto a ricevere dagli altri e da Dio.
Infine, è anche questione di cuore, cioè di avere un cuore capace di attivare connessioni, di sentire i rapporti, di non essere chiuso in se stesso. Sant’Agostino nel suo commento a Giovanni scrive “aut vitis, aut ignis”, o si è inseriti nella vite o c’è il fuoco; o l’uomo si apre a una comunione che dà vita o rimane un ramo secco.
Altre parole di Gesù sulla vigna: in Mc 12,1-11 troviamo la parabola della vigna che cita il “Canto della vigna” di Isaia (Is 5,1-7). Poi ci sono le parabole dei lavoratori nella vigna (Mt 20,1-16), del figlio obbediente e di quello disobbediente (Mt 21,28-32) e dell’albero di fico piantato nella vigna (Lc 13,6-9).