«Diventeranno un solo gregge, un solo pastore»
Commento al Vangelo di don Carlo Bellini - Domenica 25 Aprile 2021
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,11-18)
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Commento
Il vangelo di Giovanni si concentra al capitolo 10, nei versetti 1-21, sulla celebre immagine del pastore; prima una specie di parabola (vv.1-6), poi la sua interpretazione. Questa domenica leggiamo nei versetti 11-18 l’ultima parte dell’interpretazione. Il lettore di Giovanni aveva presente sia la pratica della pastorizia sia lo sfondo biblico della figura del pastore. In particolare, per questa immagine è importante il riferimento al profeta Zaccaria: ascoltiamo qualche suo passo. «Perciò vagano come un gregge, sono oppressi, perché senza pastore. Contro i pastori divampa il mio sdegno e contro i montoni dirigo lo sguardo, perché il Signore degli eserciti visiterà il suo gregge e ne farà come un cavallo splendido in battaglia» (Zc 10,2-3). «Così parla il Signore, mio Dio: “pascola quelle pecore da macello che i compratori sgozzano impunemente e di cui i venditori dicono: “sia benedetto il Signore, mi sono arricchito” e i loro pastori non ne hanno pietà”» (Zc 11,4-5). «Guai al pastore stolto che abbandona il gregge! Una spada colpisca il suo braccio e il suo occhio destro. Tutto il suo braccio si inaridisca e tutto il suo occhio destro resti accecato» (Zc 11,17).
La divisione del versetto 19: il brano termina con i versetti 19-22 che noi oggi non leggiamo. Le parole di Gesù, pur tranquille e rassicuranti, creano divisione e qualcuno addirittura lo accusa di essere indemoniato. Anche un discorso come quello del buon pastore può essere frainteso e criticato.
Su questa base possiamo capire la densità delle parole di Gesù che vanno oltre il prendere ispirazione dalla pratica della pastorizia. Gli stessi riferimenti valgono anche per la parabola della pecora smarrita in Lc 15,37 (e nel parallelo Mt 18,12- 14). Nel testo di oggi Gesù parla di sé e s’identifica con il buon pastore. Al contrario del mercenario che scappa davanti ai pericoli, il pastore è disposto a dare la vita per le pecore. I mercenari si riferiscono probabilmente al tipo delle guide religiose formaliste e superficiali che non si curano del popolo e soprattutto non lo proteggono dagli errori e da chi propaganda false dottrine.
Abbandona le pecore: nel quarto libro di Esdra, un testo apocalittico del II secolo d.C., leggiamo: «non ci abbandonare come fa un pastore che lascia il suo gregge in preda ai lupi rapaci» (IV Esdra 5,18).
Il buon pastore poi ha una caratteristica peculiare: conosce le sue pecore. Il riferimento alla conoscenza ci introduce nel tema dell’amore. Il rapporto tra il pastore e le pecore è fatto di una conoscenza che è amore, com’è tipico del modo di esprimersi semitico. Qui si aggiunge: «così come il Padre conosce me e io conosco il Padre». Dunque, la relazione è fondata nell’amore del Padre e questo ci apre al mistero della vita intima di Gesù. In questa storia di amore ci sta il dare la vita e il riprenderla di nuovo, cioè scoprire che la vita donata non è persa.
Che il pastore sia disposto a dare la vita per le pecore è una caratteristica dell’evangelista Giovanni che supera la descrizione del pastore tipica dell’Antico Testamento. La passione del pastore si rivolge a tutto il mondo, il suo desiderio di radunare si estende a tutti gli uomini. Per tutti c’è il progetto di diventare un solo gregge, con un solo pastore. Soffermiamoci su questo desiderio di unità, che nel senso più vivo esprime un desiderio di comunione. Siamo chiamati a una vita di comunione con il Signore e tra noi. L’essere una cosa sola fa parte della salvezza, del bene che il Pastore vuole portare alle pecore.
Il buon pastore: in greco è usato il termine kalòs che significa “bello”, dunque alla lettera sarebbe il “bel pastore”. Si potrebbe tradurre anche come pastore “generoso” o pastore “modello”.
Nel Pastore poi ci sono tanti altri desideri di bene per il suo gregge. Non solo la sicurezza dai pericoli ma il desiderio che la vita sia piena e vissuta nella gioia e nell’amore. In fondo il pastore ha un atteggiamento profondamente pedagogico e radicato nell’amore. Potremmo chiamarla la pedagogia di Dio, che vediamo rappresentata in tanti passi delle Sacre Scritture, e che ci mostra un popolo che non è mai arrivato e che Dio vuole guidare e far crescere. Anche le nostre comunità hanno bisogno di nutrire un’autentica passione pedagogica, cioè lavorare e gioire per la crescita di tutti: dai bambini agli adulti, una crescita nella vita e nella fede. Una speranza di crescita e non solo la paura dei lupi. Una pedagogia che implica il dare la vita per gli altri e quindi riprendersela indietro, cioè scoprire che la vita donata si moltiplica e torna indietro in una vita arricchita per tutti.